Laurent Fignon è morto a soli 50 anni dopo una lunga battaglia contro il suo tumore. Il suo ricordo sulla Gazzetta
Correva anche lui. Correva una corsa a tappe cui non avrebbe mai voluto iscriversi, perché il traguardo è ignoto, perché il traguardo non è una liberazione ma una tragedia, perché non bisogna andare forte ma piano. Correva anche lui sapendo di avere tutte le capacità per resistere, per lottare, per rallentare. Corridore lo era sempre stato, anche quando non andava in bici. Ma oggi, a mezzogiorno e mezzo, è arrivato al traguardo. Ed è morto. Laurent Fignon era “il Professore”. Non per gli studi, ma per l’aspetto: occhialini da miope e da intellettuale, forse anche l’origine parigina, forse quell’aria saputa da francese, o forse semplicemente perché era uno capace di pensarle e di dirle, e non solo di pedalarle.
Fino a 16 anni aveva toccato piste e palloni, praticato sport individuali e da squadra, preferito le attività fisiche a quelle scolastiche. Poi, a 16 anni, un’età oggi in cui i ragazzi non cominciano ma abbandonano lo sport, ecco l’illuminazione: un amico che sfoggia una bici, il papà che gli sistema un vecchio telaio, un allenatore di ciclismo che gli prospetta tutto il peggio — sofferenza, sacrificio, sconfitte — e allora lui che da quelle due ruote a trazione umana tira fuori il meglio. Professionista, dal 1979 al 1993, due Tour de France (1983 e 1984), un Giro d’Italia (1989), una Freccia Vallone (1986), due Milano-Sanremo (1988 e 1989), fino alla Ruta de Mexico conquistata nell’anno dell’addio alle corse. Come dire: uomo da grandi giri ma anche atleta da corse di un giorno. Poi organizzatore (della Parigi-Nizza), commentatore tv (France 2) e radiofonico (Europe 1), autore (la sua storia “Quando eravamo giovani e spensierati”).