L’Economist ripone il classico problema
The idea that you can give things away online, and hope that advertising revenue will somehow materialise later on, undoubtedly appeals to users, who enjoy free services as a result. There is business logic to it, too. The nature of the internet means that the barrier to entry for new companies is very low—indeed, thanks to technological improvements, it is even lower in the Web 2.0 era than it was in the dotcom era. The internet also allows companies to exploit network effects to attract and retain users very quickly and cheaply. So it is not surprising that rival search engines, social networks or video-sharing sites give their services away in order to attract users, and put the difficult question of how to make money to one side. If you worry too much about a revenue model early on, you risk being left behind.
Rilanciato anche da Bernard Poulet su LSDI (consiglio leggere tutto il lungo post sul libro La fin des journaux et l’avenir de l’information)
Osservando la generalizzazione della gratuità online, Bernard Poulet sottolinea che niente è mai gratuito e che tutto si paga in un modo o nell’ altro. Ma, poiché il modello si sta imponendo in tutti i campi, non resta altro da fare che cercare, in maniera indiretta, i mezzi per finanziare i servizi e la produzione.
Nel campo dell’ informazione, egli osserva che il trionfo della gratuità è quello dell’ informazione low cost, e questo sia online che nella stampa scritta. Lo sviluppo di queste offerte gratuite contribuisce a deprimere sempre di più le offerte a pagamento, dirottando una parte dei ricavi pubblicitari.
Questa gratuità ha anche « un costo amaro » : « una buona parte dell’ informazione prodotta dai siti internet viene da giornalisti pagati col salario a livello di sussistenza o, più spesso ancora, da stagisti a cui a stento si pagano le spese. Il servizio non ha evidentemente la stessa qualità. »