Il patto che predecentemente permetteva al lettore di “sedersi sull’idea” che esistesse una realtà separata da un’opionione non sussiste più: non ci sono più testate orientative e, del resto, non è detto che un post nasca per esprimere un’opinione (al di là dell’opinione implicita di ritagliare, da un flusso ribollente, quel frammento informativo e solo quello che si reputa degno di un post). Non è neanche detto che possa esistere una deontologia, che presuppone una professione: molti blog, come quello che state leggendo, non costituiscono infatti una forma di lavoro per chi li gestisce.
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In questo senso, una pratica di PayPerPost può risultare corretta o scorretta a seconda che si renda evidente o meno come tale: se il PayPerPost assume un carattere di emersione pubblicitaria è probabile che possa esser reso dichiarabile senza che ne si vanifichi lo scopo (il blog X parla del prodotto Y e rende pubblico il legame con l’azienda che produce Y), se il carattere più che pubblicitario è di selezione qualitativa (il blog X parla del prodotto Y in termini positivi, simulando quindi una selezione tra i prodotti similari) è evidente come qualsiasi dichiarazione pubblica del PayPerPost vanifichi, a causa della simulazione indicata, lo scopo del PayPerPost stesso.
Che nel PayPerPost sia presente tale duplice carattere, pubblico e simulatorio, è con tutta evidenza una banalità. Tale ovvietà, però, attesta come sia possibile semplificare in modo utile le possibili discussioni sull’etica nei blog utilizzando come elemento di discrimine la causa dei post, invece di concetti come libertà ed indipendenza di un autore.