Via Dagospia
Niente e nessuno potrà salvare l’Inpgi, l’ente di previdenza dei giornalisti privatizzato nel lontano ’94, dal dissesto definitivo. Solo un ritorno sotto le ali dell’Inps, come fecero i dirigenti d’azienda nel 2003 quando i conti del loro ente privatizzato, l’Inpdai, mostravano un deficit di 600 milioni, potrà garantire la sostenibilità nel lungo periodo delle pensioni dei giornalisti.
Tutto il resto, cioè la pervicacia con cui i vertici dell’Inpgi, ma anche il sindacato e l’Ordine professionale come vedremo, continuano a propugnare la via privata e autonoma dell’ente, è mera retorica, propaganda spicciola che fa a pugni con la realtà.
Nessuna auto-riforma (l’ultima del 2017) e tanto meno il piano di tagli e aumento dei contributi, emerso da un documento riservato reso pubblico (meritoriamente) da alcuni membri dissenzienti del Cda dell’Inpgi, potrà garantire che l’Inpgi sopravviva così com’è.
Il piano mette insieme una serie di piccole misure che valgono un risparmio di alcune decine di milioni, una goccia nel mare del dissesto.
I conti dell’istituto sono fuori controllo da anni. Il bilancio del 2020 mostra un buco della sola gestione previdenziale di circa 200 milioni. Ogni anno il buco tende inevitabilmente a peggiorare.
Sempre meno contributi dalla fuoriuscita massiccia dei giornalisti dalle aziende e sempre più pensioni da pagare. Ormai il rapporto tra giornalisti e pensionati è insostenibile. A fronte di 15mila attivi, ci sono ormai quasi 10mila pensionati. Il rapporto che garantisce la sostenibilità sarebbe di almeno 3 a 1 se non 4 a 1. Qui siamo a 1,5.
La prima perdita è antica. Già nel 2011 per la prima volta il rapporto tra entrate e uscite previdenziali andò in rosso. Da allora il buco si è fatto esponenziale. Oggi è di 200 milioni, e si allargherà ulteriormente dato che il Governo, lo stesso che dice di voler affrontare il collasso dell’Inpgi, ha nel frattempo deliberato la nuova tornata di pre-pensionamenti, che scaricherà sull’Inpgi un nuovo deficit. Come si vede il disastro non solo era annunciato da anni, ma è nelle cose.
Ebbene la carta nel mazzo del presidente dell’Inpgi Marina Macelloni, è stata negli ultimi 2 anni quella dell’allargamento della base contributiva. Tutti quei dipendenti pubblici e privati che fanno i comunicatori passerebbero dall’Inps all’Inpgi. Problema risolto.
Peccato che i cosiddetti comunicatori abbiano appreso solo dai giornali della mirabolante idea della presidente dell’Inpgi. E non a caso hanno parlato di deportazione e di sacrificio. Perché mai i comunicatori dovrebbero abbandonare il lido pubblico dell’Inps per sostenere i costi di un ente previdenziale privato?
Forse se si fosse trattato con la rappresentanza dei comunicatori, anziché annunciarlo in modo arrogante e spregiudicato sui giornali, spiegando loro che l’Inpgi fino a tutto il 2017, garantiva aliquote di rendimento superiori all’Inps, forse dico forse, la loro reazione di forte contrarietà non sarebbe stata così esplicita. Un autogol su cui l’Inpgi è andata a sbattere.
Sono innumerevoli e ben distribuite. I vertici dell’Istituto succedutesi nell’ultimo decennio hanno tirato a campare, traccheggiando a fronte di una crisi strutturale dell’editoria che doveva mettere in guardia già nel 2011 dall’insostenibilità prospettica dei conti.
Il venir meno dei contributi per l’emorragia di posti di lavoro causa la crisi dell’editoria e contemporaneamente l’aumento esponenziale dei pensionati allargava ogni anno la forbice tra costi e ricavi.
I ministeri vigilanti hanno avuto il ruolo del convitato di pietra. Mai un intervento di messa in guardia, nonostante la Corte dei Conti già nel 2014 lanciava l’allarme sul declino inevitabile dell’Inpgi. Il sindacato e l’Ordine muti, anzi tuttora a spalleggiare le proposte mirabolanti di cura dei vertici. Ora l’Ordine ha tirato fuori il coniglio dal cilindro. Chiedere la garanzia pubblica delle pensioni Inpgi.
Risibile. Se sei un ente privatizzato, non puoi chiedere aiuti pubblici allo Stato se poi mantieni la tua autonomia. O sei pubblico a tutti gli effetti o rimani privato, accollandoti tutte le responsabilità Il tutto in nome di una presunta autonomia come valore fondante della professione. L’autonomia i giornalisti se la devono guadagnare sul campo della professione, non su quello della gestione finanziaria del loro ente previdenziale.
Se vuoi continuare a rimanere privato devi mettere in conto di dover portare i libri in Tribunale, se i conti non tornano e sei privatizzato, devi accettare l’idea del fallimento come qualsiasi ente economico privato.
Imputare del dissesto i vertici dell’istituto anche questo è pura retorica. La crisi del mercato del lavoro è oggettiva. I pre-pensionamenti, alcuni molti facili permessi dallo Stato con la causale della crisi prospettica, e avvallati dal sindacato, hanno consentito ad aziende in utile (leggi Repubblica ad esempio) di scaricare i costi aziendali sull’Inpgi. E la contrazione dei rapporti di lavoro ha fatto il resto.
Certo la miopia c’è stata e profonda. L’istituto è stato a guardare, non ha preso di petto la situazione già dieci anni fa, quando il patrimonio non era eroso dalle perdite, e quando si poteva imboccare più facilmente il rientro nell’alveo pubblico da condizioni di relativa forza. Oggi si va a chiedere il soccorso pubblico con il cappello in mano. Le due riforme del decennio (2011 e 2017) non hanno invertito la situazione. Perché di fatto non è sanabile.
Ogni anno, pur con le riforme, il buco previdenziale aumenta di una cinquantina di milioni. Prova ne è che da solo l’Inpgi non può farcela.
Per colmare il buco occorrerebbe un taglio pesantissimo delle pensioni e/o un aumento intollerabile dei contributi Per colmare il disavanzo attuale di 200 milioni, si dovrebbero tagliare le pensioni del 20-30% e insieme aumentare i contributi di entità analoga. Un bagno di sangue intollerabile e probabilmente anti costituzionale soprattutto sui trattamenti in essere, ma anche sui contributi dato che ora sono allineati al regime Inps.
A proposito di contributi e della responsabilità in capo ai vertici dell’ente.
Per decenni le aziende editoriali hanno versato contributi più bassi di 2-3 punti percentuali rispetto all’Inps. Un regalo agli editori, sanato solo negli ultimi anni.
C’è un tema spinoso che nessuno ha mai affrontato e che non salverà l’Inpgi, ma chiama in causa le gestioni di chi ha governato l’Istituto negli ultimi anni. L’Inpgi ha una mole di contribuiti non riscossi enorme. Sono i contributi degli editori, dato che i giornalisti vedono il loro contributo (il 9% più un 1% aggiuntivo per retribuzioni sopra i 44 mila euro) trattenuto direttamente in busta paga. Ebbene il monte contributi non riscossi ammonta a ben 277 milioni di euro. Un livello che si trascina inalterato da anni. Nel 2011 il monte contributi evasi o meglio in sofferenza era di 274 milioni di euro.
Come si vede nulla è successo. L’ente si trascina da un decennio una montagna di contributi non pagati dalle aziende senza fare quasi alcunchè. I tassi di recupero come ha rilevato la Corte dei Conti sono risibili. Pochi milioni l’anno. E così ogni anno l’ente deve svalutare i crediti in sofferenza di decine di milioni. C’è un fondo svalutazione di un centinaio di milioni nel bilancio dell’Inpgi tuttora. Ebbene la Corte dei Conti nella relazione del 2017 metteva in luce la scarsissima capacità di recupero da parte dell’Inpgi e suggeriva di passare a misure più drastiche come la riscossione coattiva. Insomma se gli editori non pagano si potrebbero pignorare i loro beni. E’ stato fatto?
Vero è che di quei 277 milioni, una cinquantina sono ritardi di incassi da un anno con l’altro che quindi vengono poi riscossi e un’altra cinquantina sono contributi non pagati da aziende fallite. Restano in ogni caso almeno 170 milioni di sofferenze da recuperare. Perché non assumere giovani laureati disoccupati come ispettori, con magari un incentivo sui volumi recuperati, e provare ad andare a caccia delle aziende morose? Si è mai provveduto. Dai tassi di recupero risibile pare di no.
Dalla gestione finanziaria emergono le prime crepe. Per forza, dovendo liquidare le attività in titoli per garantire la liquidità immediata per pagare le pensioni, i proventi finanziari si assottigliano. L’anno scorso sono stati di pochi milioni solo 3,7, contro una media di qualche decina di milioni degli anni scorsi. Pesano anche le svalutazioni dei titoli. Nel 2019 sono stati persi 37 milioni e altri 14 milioni nel 2018. Altri 10 milioni sono stati persi nel 2020. Se i conferimenti immobiliari e la gestione in titoli avevano in passato compensato in parte il buco della previdenza, ora anche questo appiglio non c’è più. Un’altra ragione per ritenere che la sopravvivenza dell’Inpgi così com’è non è garantita per nulla
Il dissesto e l’accumulo vertiginoso delle perdite non hanno scalfito più di tanto gli stipendi del presidente Marina Macelloni e del direttore generale Mimma Iorio. Secondo l’ultimo rapporto della Corte dei Conti, la presidente Macelloni nel 2017 ha incassato 229mila euro, cui si sono aggiunti 16mila euro di rimborsi per un totale di 246mila euro.
Remunerazioni appena al di sotto del limite imposto per i dirigenti della pubblica amministrazione. Certo Macelloni ha fatto la sua piccola spending review dato che nel 2016 era arrivata a incassare 272 mila euro. Il direttore generale Mimma Iorio ha un contratto che le assicura una remunerazione fissa da 232 mila euro, al netto dei contribuiti previdenziali e assistenziali, come ha ricordato nell’ultimo rapporto la Corte dei Conti.
Nessuna auto-riforma potrà invertire sul medio lungo termine la situazione. Sarà, come le ultime due riforme hanno dimostrato, un pannicello caldo utile solo a guadagnare tempo. Ma il tempo è scaduto. Se l’ipotesi del travaso dei comunicatori (unica chance che si è data l’Inpgi) fallirà allora la fine è segnata. Commissariamento inevitabile con i rischi questo sì di tagli draconiani. I giornalisti in pensione potrebbero ritrovarsi con la pensione sociale. Incaponirsi solo su questa linea vuol dire giocare a poker. Una scommessa sulla pelle dei giornalisti.
L’Inpdai ha già percorso ormai più di 15 anni fa la strada del rientro pubblico. I dirigenti d’azienda vanno in pensione con le norme Inps, le stesse norme con cui l’Inpgi con la riforma del 2017 si è di fatto allineata. Per i trattamenti in essere dei dirigenti d’azienda prima del passaggio all’Inps provvede la gestione speciale ex Inpdai. Paga le pensioni non incassando più contributi. Solo il cappello pubblico consente di provvedere al pagamento delle pensioni. Se si fallisce da privati allora non c’è più nessun ombrello. Perché può valere per i dirigenti d’azienda e per i giornalisti l’ipotesi di una ripubblicizzazione pare ancora un tabù? Si attendono risposte non retoriche.