L’ecosistema editoriale di Facebook è diventato qualcosa di cui i media non possono fare a meno. Facebook ha vinto e le organizzazioni mediatiche francesi sono ora affette da una dipendenza che è triplice e le lega alla piattaforma di Menlo Park per tre ragioni: per l’espansione gratuita delle loro audience, per l’utilizzo degli strumenti di produzione e distribuzione del social network e per la raccolta di introiti aggiuntivi.
Dall’innocente richiesta di like dell’inizio, ai video a pagamento di oggi, Facebook, come fornitore di audience, ha fatto benissimo il suo lavoro: un colpo alla volta, gli editori hanno infatti siglato un patto tacito con la piattaforma, una sorta di matrimonio di convivenza. Una delle due parti porta in dote due miliardi di utenti e l’altra, più squattrinata, non avrebbe potuto chiedere di meglio. In difficoltà economica e abbandonate progressivamente dai loro lettori, le testate tradizionali hanno ricevuto una botta di vita inaspettata dal pubblico offerto da Facebook. Strafatti di statistiche rosee, gli editori si sono poi convinti di aver trovato l’El Dorado dell’utenza online appena in tempo.
La delusione, però, era fin troppo prevedibile. Facebook è chiaramente intenzionata a far scoppiare questa bolla aggiungendo presentando il conto alle aziende più strettamente connesse ai like e al traffico che Facebook garantisce ai loro siti. Ogni giorno, gli staff editoriali investono grandi risorse al fine di produrre contenuti pensati esplicitamente per la piattaforma. Ma quali sono le ripercussioni sulle operazioni quotidiane delle redazioni, sia grandi che piccole, di questa servitù volontaria? E quali saranno le conseguenze per i team che lavorano al fine di riempire i feed di Facebook, specialmente con contenuti video live e on-demand? E infine, come ha fatto il social network a convincere così tanti media in crisi economica a lavorare per riempire la sua piattaforma? Guardiamo più attentamente a questa strategia formidabile che sta mettendo alla prova gli staff editoriali.
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Ci sono molte ragioni per le quali la maggior parte delle testate ha poco da guadagnare dal mettersi a produrre video per i social media:
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La produzione è complessa, richiede molto tempo ed è costosa, specialmente per le testate prevalentemente cartacee che non hanno sufficiente dimestichezza nel settore. Inserire un flusso di lavoro specifico e formare o assumere giornalisti capaci di filmare ed editare video per i social rappresenta un costo considerevole. E in questo settore, sperare di fare guadagni è spesso solo un sogno.
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I contenuti sono estremamente professionali. I video postati su Facebook sembrano sempre più produzioni tv e la cosa tende a escludere le testate che non sono in grado di attenersi a questi standard. Oggi, la maggior parte degli streaming live su Facebook è realizzata con diverse videocamere e un regista.
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I formati consigliati sono soggetti al cambiamento. Per sei mesi Facebook ha voluto video che durassero meno di un minuto e che potessero essere visti senza audio. Il mese successivo, questi dovevano durare almeno un minuto e trenta secondi, altrimenti l’algoritmo avrebbe potuto respingerli.
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L’engagement è un paradosso. L’esperienza mostra che i video postati su Facebook portano la quantità più bassa di traffico ai siti delle testate. I video creano un tasso di engagement molto alto, ma sono visti sono nei news feed e raramente sui siti. Nonostante questo, le imprese mediatiche stanno intensificando i propri sforzi nella produzione di video nativi che non generano alcun profitto. Ma come su YouTube, i video fanno fatica a scalare le classifiche dei contenuti più visti su Facebook.
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I dati sulle audience sono ingannevoli. Comprendere e analizzare i dati di Facebook sull’engagement richiede pazienza e competenze solide e l’affidabilità delle cifre non dovrebbe essere data per scontata. Nel 2016, ad esempio, Facebook ha ammesso di aver sovrastimato le statistiche sulle view dei video del 60/80% nel corso di due anni. Un “errore tecnico” era stato indicato come causa dell’errore. Questa risposta vacua potrebbe farci sorridere se non fosse per l’impatto enorme che ha avuto sugli investimenti in pubblicità e sui fondi destinati dalle aziende alla produzione di video. Quando un’azienda ottiene diverse centinaia di migliaia, se non milioni, di view per ogni video, i margini di errore non sono così significativi, ma quando una strategia video è basata su poche centinaia di click le ripercussioni possono essere importanti.
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Il desiderio di mantenere la reach e la tentazione di sponsorizzare i post può essere forte. Il fatto che tutti gli attori siano presenti su Facebook sta creando una corsa all’attenzione e il risultato sono timeline saturate e una decrescita nella visibilità dei contenuti, orchestrata in modo intelligente da Facebook. Una decrescita significativa nella reach delle pubblicazioni può contribuire alla destabilizzazione dei modelli di business già fragili delle testate. La tentazione di pagare per mantenere quella popolarità, generosamente garantita dalla piattaforma, non è più un’eccezione nelle redazioni. I contenuti sponsorizzati sono in crescita e le aziende mediatiche stanno ora diventando anche i clienti del dipartimento pubblicità di Facebook.