Le riflessioni del nostro Guru Pino Rea
Nell’ era del giornalismo senza giornalisti c’ è un bisogno crescente di saperi giornalistici di alto livello e quindi di una alta professionalità giornalistica. E’ uno dei paradossi dell’ attuale sistema dell’ informazione e si intreccia ad un altro fenomeno molto rilevante, quello della ibridazione dei profili e delle competenze. L’ ibridazione è la natura del web e il web è l’ ecosistema produttivo e culturale in cui tutte le altre piattaforme (compresa la carta) dovranno muoversi.
In questo quadro è cruciale la questione dell’ egemonia del discorso giornalistico: dell’ impegno per la prevalenza, all’ interno dell’ industria dell’ informazione, dei valori di fondo che il giornalismo ha accumulato in decenni di attività e storie di eccellenza giornalistica, anche sul piano etico. Perché il giornalismo italiano è stato anche questo, non solo cattiva moneta.
Questa egemonia presuppone dei Centri di produzione di discorso giornalistico. Il lavoro del sindacato, la Fnsi, pur con tutte le sue contraddizioni e i suoi ritardi, ha prodotto tanto su questo piano: il contratto di lavoro, se ci pensate, è un preziosissimo concentrato delle principali linee guida del buon giornalismo.
L’ Ordine ha cercato in questi 50 anni di svolgere anche questa funzione (il lavoro sulla deontologia ne è un esempio), ma sempre con grande affanno, e nello stesso mondo del giornalismo è stato sempre vissuto come un organismo ‘’necessario’’, ma non coinvolgente. Molto istituzione e poca fantasia.
O si cambia o si chiude
Ora per l’ Ordine è venuto il momento della verità: la Riforma è l’ orizzonte della consiliatura avviata nel giugno scorso. E uno slogan efficace è: ‘’o si cambia o si chiude’’.
Gli snodi sono diversi: l’ accesso unico, una formazione di alto livello e permanente, la produzione deontologica, l’ analisi dei cambiamenti e dell’ innovazione (perché non investire in un buon Centro studi le risorse che vengono ora destinate a decine di gruppi di lavoro scoordinati fra di loro?).
E, infine, quello della urgenza di superare la vecchia distinzione fra professionisti e pubblicisti attraverso un albo/un elenco, quello dei giornalisti abilitati a fare la professione. Che poi la facciano o meno, e come la faranno, dovrebbe essere poi argomento di sindacato, editori e mercato.
E’ l’ aspetto che ha generato maggiori polemiche, ma penso che una scelta di questo genere risponda all’ esigenza di snellire e semplificare il quadro della professione (il parametro è il bagaglio di saperi, certificato da un biennio di formazione specialistica, anche sul campo, e da un esame finale), invece di complicarlo introducendo ulteriori tassonomie.
E’ una proposta condivisa da diversi consiglieri ed ex consiglieri nazionali dell’ Ordine dell’ area di ‘’Liberiamo l’ informazione’’, che sottopongo anche in loro nome a questo importante incontro di Assisi.
Aggiungo che i dati sui numeri della professione elaborati da Lsdi consolidano questa proposta. In particolare quelli relativi a una presenza massiccia di pubblicismo nell’ area della professione attiva.
Un solo elemento. Il lavoro giornalistico ufficiale, almeno sul piano numerico, è in prevalenza nelle mani dei pubblicisti: sono 24.864 infatti quelli attivi (con posizione Inpgi), contro i 21.475 professionisti (vedi qui). Certo sul piano del reddito la situazione è durissima, ma questo è un altro livello di analisi.
Penso che questi colleghi pubblicisti, che sono pienamente dentro l’ area del giornalismo professionale, sarebbero d’ accordo nel perdere la connotazione di ‘’pubblicista’’ conservando quella di ‘’giornalista’’ e che ai professionisti basterebbe il titolo di giornalista. O no?