Marco Bardazzi propone un’analisi diversa del caso Wikileaks, possiamo non condividerla, ma la serietà professionale di Marco è tale da richiedere grande attenzione al pluralismo delle idee
Ci sono voluti decenni di campagne di stampa e battaglie giudiziarie e politiche, perché in democrazie avanzate come gli Usa si arrivasse a mettere a punto leggi sulla libertà di informare e sulla trasparenza che, pur con molti limiti, hanno permesso di veder fiorire un serio e aggressivo giornalismo d’inchiesta. L’arrivo di Assange e del suo Wikileaks rischiano di spazzare via tutto. Diciamolo: Assange potrebbe rivelarsi il più grande nemico della trasparenza dai tempi di Nixon.
L’effetto più immediato che avrà la pubblicazione in Rete della valanga di documenti del Dipartimento di Stato, sarà quello di spingere l’amministrazione Obama e i futuri governi di Washington a restringere in modo significativo e pericoloso l’accesso alle informazioni. Aumenterà il ricorso al “segreto”, anche indiscriminato. Verranno rafforzate le protezioni a tutte le linee di comunicazione. Sarà più difficile riuscire a mettere le mani su documenti ufficiali.
Sarà così vanificato lo sforzo fatto negli ultimi anni per combattere gli eccessi di segretezza che hanno caratterizzato l’amministrazione Bush. A godere i frutti della grande fuga di notizie, insomma, saranno gli esponenti di governo “alla Dick Cheney”, gli amanti del segreto a tutti i costi, convinti che i poteri presidenziali non debbano venir disturbati da “fastidi” come la libertà di stampa. L’intero movimento anti-segretezza nato dopo gli errori dell’11 settembre, portato avanti da esperti di trasparenza governativa intelligenti e accorti come Steven Aftergood, dovrà ripartire quasi da zero. Alla faccia del “grande servizio reso da Julian Assange all’umanità e al giornalismo”, come ha commentato l’inviato australiano John Pilger, grande sostenitore del fondatore di Wikileaks.
“Quello di Wikileaks è il giornalismo migliore”, ha detto Pilger. Dissento. Assange è molte cose, anche rispettabili, ma sicuramente non è un giornalista. Il giornalismo non è pubblicazione indiscriminata e senza filtri. E il giornalismo vero non parte da una tesi precostituita, che nel caso di Assange è la convinzione che gli Stati Uniti siano i protagonisti di una “cospirazione autoritaria planetaria” (leggete un paio di saggi di Assange del 2006: “State and Terrorist Conspiracies” e “Conspiracy as Governance”). Assange non è neppure un whistleblower, come si chiamano in America coloro che decidono di rompere il silenzio dall’interno di un’organizzazione per svelarne le malefatte: fino a prova contraria, i cablogrammi del Dipartimento di Stato non sono la documentazione di reati, ma un legittimo scambio di informazioni interne e riservate tra diplomatici.