da The truth is that many of us have had a good pandemic di Simon Kuper Per FT
Sabato scorso ho preso un caffè con un amico che ho visto a malapena durante tutta la pandemia. Subito dopo esserci dati il gomito, ha orgogliosamente preso il telefono per mostrarmi i risultati delle sue analisi più recenti: il colesterolo era crollato perché aveva smesso di mangiare fuori; era contento di non socializzare, e quando la sera precedente era stato invitato a due cene “illegali” ha detto di non poter partecipare perché doveva rimanere a casa a guardare Netflix.
È stato piacevole incontrarci, ma in meno di un’ora avevamo finito gli argomenti e ci siamo inventati delle scuse per tornare a casa e goderci la beata solitudine.
Durante la pandemia al centro dell’attenzione ci sono state giustamente le persone che hanno sofferto: i morti, le persone in lutto, quelle lasciate sole, i depressi, disoccupati, impoveriti, le donne malmenate dai propri partner, i genitori intrappolati dalle infinite lezioni online dei figli e i ragazzi che vedono la loro gioventù passare senza poterla utilizzare. Ma c’è anche una verità nascosta che raramente si vuole scoprire: molti di noi sono molto più felici grazie alla pandemia.
Ora, mentre i vaccini promettono un ritorno alla vita normale, non siamo più sicuri di volerla.
Il sondaggio annuale sulla felicità globale di Ipsos, che nel periodo tra lo scorso luglio e agosto ha intervistato 20.000 adulti in 27 paesi diversi, ha riportato delle conclusioni interessanti: il 63% delle persone hanno detto di essere felici, solamente un punto percentuale in meno rispetto al 2019.
Questo è in linea con il solito declino annuale: la percentuale di persone che dicevano di essere felici è calato di 14 punti globalmente tra il 2011 e il 2020; con cali vertiginosi in Messico, Turchia, Sud Africa, Argentina, Spagna e India. La perdita dell’anno scorso non sembra essere molto determinante, visto che le fonti di felicità più citate provenivano dal privato: “la mia salute/benessere”, “la mia relazione con il partner” e “i miei figli”.
Allo stesso modo, Meike Bartels, professoressa di genetica e benessere alla VU di Amsterdam, ha paragonato i dati di sondaggi condotti su 5.000 persone pre-pandemia con i dati circa 18.0000 persone durante il periodo Covid-19 e ha trovato una considerevole minoranza, circa una persona su cinque, che riportavano “livelli incrementati di felicità, ottimismo e significato nella vita”.
La pandemia ha semplificato molte vite “impegnate e complicate” ha rivelato Bartels a Horizon, la rivista Europea sulla ricerca e innovazione: “alcune persone hanno realizzato che probabilmente non conducevano la vita che volevano e hanno passato più tempo a casa con le proprie famiglie – ricevendo un po’ di sollievo dallo stress quotidiano”. Il gruppo dei “felici” potrebbe essere anche più grande di quanto riportato, visto che ammettere di essere felici durante una pandemia è considerato socialmente inappropriato.
Sarebbe troppo facile elencare tutti quelli felici come “privilegiati” o accusarli di far parte di una “elite”, ed è un ragionamento contestabile. Pensate a tutti i dipendenti che sono stati liberati da lavori e capi che odiavano e – specialmente in Europa – che ora sono pagati per restare a casa. Nel sondaggio sullo stato della felicità globale di Gallup del 2017, solo il 15% degli impiegati in 155 paesi diversi dichiaravano di sentirsi appassionati nei propri lavori; due terzi non erano appassionati, e il 18% erano attivamente disinteressati e “risentiti del fatto che i loro bisogni non fossero soddisfatti, aumentando la loro infelicità”.
La pausa di un anno potrebbe essersi rivelata un sollievo per tutti coloro che l’antropologo David Graeber chiama “bullshit jobs” che non contribuiscono alla società in modo significativo: i “tirapiedi” il quale compito è solo di far sentire gli altri importanti, o “scagnozzi” dei call center che vendono prodotti inutili.
Queste persone sono state liberate dal compito di programmare la vita di altri, senza contare le vittime di una fonte di miseria speso sottovalutata: fare il pendolare.
Secondo il Britain’s Office for National Statistics, in un sondaggio del 2014 su 60.000 persone “i pendolari hanno un livello di soddisfazione di vita più basso della media, un minor senso del valore delle proprie attività giornaliere, livelli inferiori di felicità e livelli di ansia più elevata rispetto ai non pendolari.” Però coloro che continuano a fare i pendolari durante la pandemia stanno traendo benefici dalle strade vuote e dai treni meno affollati.
Molte persone nei paesi più sviluppati hanno tagliato i costi dei pasti fuori e delle vacanze. Il tasso di risparmio personale negli Stati Uniti ha raggiunto il picco record del 32.2% lo scorso aprile, e da allora in poi è rimasto considerevolmente più alto rispetto al periodo pre-pandemia.
Coloro che non devono avere a che fare con la didattica a distanza o lavorare in terapia intensiva hanno soprattutto ricevuto il dono del tempo. Quest’anno ho occasionalmente provato una nuova sensazione poco familiare: il non dover fare niente di urgente.
La vita in società è innaturale, complicata e sovrastimolante. Per la prima volta abbiamo a disposizione delle alternative quasi completamente virtuali: lavoro, socializzazione, shopping, consegne di cibo e anche sesso. Alcune persone non vorranno mai più tornare indietro.
L’altra sera ho dovuto attraversare Parigi dopo il coprifuoco per un evento di lavoro. Risentito di avere alterato la mia piacevole routine serale, mi sono reso conto di essere diventato un animale abitudinario. Quando sono stato costretto a condividere lo spazio con sconosciuti in metro mi sono autodiagnosticato con una leggera forma di agorafobia e quello che gli psicologi stanno chiamando “ansia da rientro”.
Vorrei mantenere certe abitudini prese durante la pandemia, come passare un giorno intero del weekend dentro casa. Ma ho il sospetto che presto ricascherò nel vortice pre-Covid.