Via Liana Milella su La Repubblica
Diritto all’ oblio nelle mani del Garante della privacy, il Pd frena. A cominciare dalla relatrice del ddl sulla diffamazione, la senatrice veneta dem Rosanna Filippin, che a Repubblica dice: «La mia è un’ ipotesi aperta su cui discutere, non è affatto un diktat, né un testo blindato. È un tentativo di mediazione sul modello del cyberbullismo. Ma, ammesso che il ddl ce la faccia a essere approvato, c’è tutto il tempo per discutere».
Come sempre, quando si parla di legge sulla diffamazione, scoppiano le polemiche. Quattro passaggi parlamentari, un testo che da tempo giace al Senato profondamente rivisto rispetto a quello della Camera, poche chance di essere licenziato da palazzo Madama, anche se il Pd non esclude che possa farcela per ottobre, quando poi però dovrebbe tornare alla Camera per l’ ennesima lettura.
Tuttavia il caso scoppia lo stesso quando il Fatto quotidiano scopre che il contestato “diritto all’ oblio” – via dal web, con un colpo di spugna, le notizie ritenute diffamatorie con un ricorso al Garante della privacy se entro 5 giorni dalla richiesta il sito non cancella quella considerata lesiva – torna a far parte di quello che resta dell’ originario ddl sulla diffamazione. Stralciati, per mancanza di accordo politico, sia la soppressione del carcere per il giornalisti, sia le norme sulla rettifica. Tutto finito in un provvedimento che non vedrà mai la luce, restano tre articoli, due sulle querele temerarie nel penale e nel civile, e il rivisitato diritto all’ oblio.
Che, nella versione di Filippin, ha subito sollevato le proteste di Mdp, con Felice Casson e Lucrezia Ricchiuti. Dice l’ ex giudice istruttore di Venezia: «In primis va difesa la libertà di stampa contro le querele temerarie, tant’ è che ho ripresentato il mio emendamento che le punisce. Quanto al diritto all’ oblio esso può arrivare solo dopo che il giudice ha constatato la diffamazione ».
Ricchiuti è furibonda: «Stanno mettendo il bavaglio ai giornalisti e gli stessi giornalisti non se ne accorgono e non reagiscono con la necessaria energia. Quella di Filippin è una norma antidemocratica che lede il diritto all’ informazione. Da censurare e criticare al di là del fatto che la legge sia alla fine votata. Dal Pd mi aspetterei un sussulto di indignazione…».
Il Pd, in realtà, reagisce sorpreso. Perché sull’ ipotesi di affidare al Garante della privacy la materiale cancellazione e la “deindicizzazione” delle notizie ritenute diffamatorie non ha ancora discusso, né preso una decisione. Lo dimostra la stessa Filippin che spiega così la genesi del suo emendamento: «Compito del relatore è trovare una soluzione su un problema sentito da tutte le forze politiche.
È un fatto innegabile che tutti i gruppi, ad eccezione di M5S, hanno riproposto il diritto all’ oblio che la Camera aveva cancellato. Io ho semplicemente cercato una norma coerente cui agganciarmi e ho ritenuto che il codice della privacy potesse essere uno strumento giusto».
Ricchiuti e Casson, con una battuta, dicono che Filippin avrebbe riproposto pari pari un emendamento del forzista Giacomo Caliendo. Lei, Filippin, sostiene invece di essersi ispirata al caso “Google Spain” finito alla Corte di giustizia del Lussemburgo e di essersi appoggiata a una norma che già esiste, la possibilità di ricorrere al Garante qualora ci sia stata una manifesta violazione della privacy.
Spiega: «Se il sito non cancella entro 5 giorni, chi si ritiene danneggiato presenta un ricorso al Garante che, con i suoi tempi necessari, fa un’ istruttoria e decide ». Manca, in questa procedura, la parola del giudice. Filippin commenta: «Il problema è difendere le vittime, le soluzioni possono essere molte, e non è detto che quella che ho proposto io sia la migliore. Vedremo, non c’ è fretta». Anche perché la possibilità che la legge passi gode di una percentuale molto bassa.