Se infatti a fronte della pubblicazione di un’inchiesta o un articolo un reporter si vede piovere addosso una o più querele o richieste di risarcimento danni e magari quel giornalista è precario o non è assistito e tutelato dal suo editore, le conseguenze possono diventare molto gravi. Va ricordato che in Italia dei circa 50 mila giornalisti attivi, solo 16 mila hanno un contratto di assunzione a tempo indeterminato (si tratta di dati segnalati da esponenti degli organismi di categoria). Il reddito medio del resto dei giornalisti (circa 34 mila) si aggira intorno ai 7 mila euro annui.
Secondo l’osservatorio “Ossigeno per l’informazione” su 100 querele presentate 40 sono temerarie. Oggi ci sono tre vie sanzionatorie nei confronti del giornalista che commette un errore: la sanzione penale, l’azione civile di risarcimento danni e l’equa riparazione, istituto previsto nella legge sulla stampa degli anni ’40. Difendersi in un giudizio ha dei costi (avvocati e bolli), può far perdere giornate di lavoro per interrogatori e udienze; una causa contro un reporter può offrire il fianco alle idee poco intrepide di quei direttori ed editori pronti a scaricare il giornalista piantagrane, uno di quelli da tenere in un angolo, uno di quelli che le rappresaglie se le va a cercare. Ma il punto è proprio questo: il giornalista deve essere un piantagrane e “se le deve andare a cercare”, non con opinioni o provocazioni ma scovando le notizie, possibilmente quelle inedite. E qui va fatto un primo distinguo. È ovvio che il giornalista possa sbagliare e il suo lavoro debba essere criticato, ma nella valutazione di eventuali sanzioni da applicare rispetto ai suoi comportamenti è fondamentale capire se l’errore sia di natura intenzionale, se si tratti di un episodio di superficialità o se sia meramente colposo (cioè indotto da una fonte che sembrava attendibile) o determinato da una parziale o non corretta verifica della notizia. Nel primo caso, a mio parere, non si tratta di giornalismo ma di un episodio di criminalità: utilizzare intenzionalmente il lavoro giornalistico per colpire un soggetto con notizie che si sa essere false e diffamanti. Esempi ce ne sono ma inspiegabilmente spesso fatichiamo a uscire dalla trincea del corporativismo quando invece sarebbe opportuno tracciare una linea netta tra ciò che è giornalismo e ciò che non può esserlo. Il secondo e terzo caso sono invece le ipotesi che si verificano più di frequente. Per il momento – e anche se passasse la nuova legge sulla diffamazione – questa distinzione, che potrebbe attenere alle varie ipotesi di dolo e colpa, per il reato di diffamazione non viene fatta. Rientra tutto nel dolo generico. Che significa? Che non è richiesta l’intenzione ma basta l’idoneità a offendere delle espressioni utilizzate, espressioni che dovranno rientrare nei limiti della rilevanza, verità e continenza. Esiste un’attenuazione del dolo per la diffamazione a mezzo stampa che si chiama “scriminante putativa” e si applica quando il giornalista diffonde le notizie ritenendole vere (avendo ricercato riscontri) mentre in realtà non lo sono. Ma nella vita reale c’è purtroppo anche un quarto caso ed è quello in cui il giornalista subisce l’abuso attraverso uno strumento giuridico. Capita ormai spesso che un lavoro giornalistico che infastidisce, che disturba, spesso venga attaccato con gli strumenti della querela, in sede penale, o della richiesta di risarcimento danni, in sede civile. Qualche volta la querela viene utilizzata anche come minaccia per ottenere che il cronista smetta di occuparsi di quell’argomento. A volte l’obiettivo viene centrato perché il giornalista, spesso precario o sottopagato, viene sopraffatto dal timore di finire schiacciato dal peso delle possibili conseguenze economiche delle denunce. Altre volte è proprio il giornale, soprattutto le testate più piccole, quelle on line o le cooperative editoriali, a porre un freno o uno stop al giornalista perché la responsabilità degli articoli coinvolge in sede penale anche il direttore e in sede civile direttore ed editore in solido. Sempre più spesso il presunto diffamato sceglie di ricorrere al giudizio civile e non a quello penale. Perché? Innanzitutto la struttura del processo penale consente una difesa più forte: c’è la fase delle indagini preliminari e la possibilità che sia la procura stessa a chiedere l’archiviazione salvo poi la possibilità per il querelante di proporre opposizione alla richiesta di archiviazione e trascinare il giornalista davanti al giudice dell’udienza preliminare (Gup). Dunque, c’è un filtro per accertare la rilevanza penale o meno del fatto oggetto della querela. Cosa accade in sede civile? Qui le citazioni non sono sottoposte ad alcun esame preliminare. Si va direttamente in aula, davanti al giudice senza un vaglio preventivo. Tutto questo produce una serie di conseguenze per un giornalista, il quale, anche se fosse innocente, dovrà sostenere le spese legali per il giudizio, fino alla sentenza. C’è poi una questione che riguarda i tempi: in sede penale il termine per presentare la querela è di 90 giorni dalla pubblicazione della notizia, il termine di prescrizione in sede civile è invece quinquennale. Inoltre, secondo il codice civile, «in ogni caso, se il fatto è considerato dalla legge come reato e per il reato è stabilita una prescrizione più lunga, questa si applica anche all’azione civile». In questo modo le testate e i giornalisti possono rimanere esposti al rischio di ricevere una citazione per diffamazione anche dopo diversi anni dalla pubblicazione della notizia.