Un’analisi punto per punto dei contenuti della Riforma costituzionale su cui si vota il 4 dicembre
Dicono gli oppositori della nuova Costituzione che essa è scritta male; e anche molti dei suoi sostenitori lo ammettono, ma quasi sempre senza spiegare il come e il perché dell’inadeguata stesura dopo il lungo periodo di gestazione. Non è un fatto estetico, semplicemente essa non è scritta come una costituzione. Contiene troppi rimandi interni, che la rendono poco leggibile, come lo sono le leggi italiane; contiene troppi dettagli da legge ordinaria anziché principi e criteri generali tipici delle carte costituzionali. Soprattutto è reticente, incompleta e inconcludente proprio secondo quella “visione d’insieme” con cui essa veniva presentata al Parlamento l’8 aprile del 2014. Questo fatto non può essere casuale; al contrario ci induce a guardare più esattamente come le singole norme rispondano a un disegno non dichiarato, ma reale che si tratta di approvare o respingere il 4 dicembre. Al di là della pubblicità ingannevole di chi vuol far credere che ad una serie di problemi, più o meno utilmente individuati, esistesse un’unica soluzione, e soprattutto solo la soluzione di un’ampia revisione costituzionale, bisogna guardare al nocciolo duro della rivendicazione dei suoi apologeti: questo testo porta finalmente a compimento quella riforma che i partiti italiani non erano riusciti a fare, per più di trent’anni, almeno dal 1982.1 Ora l’obbiettivo che con trasversale pertinacia tutte le maggiori forze politiche, una quindicina di governi, e quasi tutti i presidenti (dovrebbe mancare all’appello Scalfaro) hanno perseguito è il presidenzialismo strisciante con cui hanno tentato di rispondere alla crescente insoddisfazione, anch’essa trasversale, dei cittadini nei confronti di ciò che i loro rappresentanti compivano nelle proprie funzioni. Sono infatti trent’anni (1982-2013) che hanno visto crescere costantemente, fino al 25%, l’astensione alle elezioni politiche, che hanno visto il consenso ai due maggiori schieramenti sommati ridursi al limite del 50%.
Proprio perché l’obbiettivo condiviso era un presidenzialismo spurio, privo delle garanzie istituzionali che in un sistema liberaldemocratico tutelano insieme i perdenti delle elezioni e i cittadini in generale, i tentativi sono falliti: nessuno degli schieramenti maggiori si fidava veramente di consentire che di un tale rafforzamento del potere del governo potessero godere gli avversari. Il fallimento della Commissione bicamerale, presidente d’Alema, è emblematico. Non a caso l’aspirazione a un presidenzialismo concepito come governo eletto direttamente e insieme alla propria maggioranza – modello ignoto a tutte le democrazie liberali – si è accompagnata a continui tentativi di manipolare in questa direzione le leggi elettorali, e a continui attacchi, svilimenti, e forzature della carta costituzionale. Alla conclusione di questa storia Renzi, che nella presentazione alla Camera ha riconosciuto il fallimento dei tentativi di ottenere attraverso la sola legge elettorale la desiderata concentrazione nelle mani del governo di poteri non rallentati da controlli, si è trovato in una congiuntura particolarmente favorevole potendo godere al tempo stesso di un vantaggio politico prodotto da una legge elettorale illegittima e di una consistente opportunità di trasformismo. La stessa congiuntura ha consentito di approvare una legge elettorale che, mentre è libera dall’irrazionalità della legge Calderoli, può trasformare in maggioranza parlamentare e costituire in potere di governo anche una minoranza infima di votanti.
In questa sequenza si capisce allora che un’ampia revisione costituzionale come la presente è necessariamente attuata con una maggioranza esigua, e non può godere di un ampio consenso né tra le forze politiche del centrodestra, che la temono nelle mani degli avversari e non possono condividere la diminuzione dei poteri regionali, pena la propria sicura disunione, né tra i cittadini, molti dei quali ne avvertono le pericolose linee di faglia. La ratio della revisione è dunque quella di creare uno spazio relativamente vuoto di poteri potenzialmente contrapposti nel quale l’egemonia politica e istituzionale del governo possa dispiegarsi senza essere costituzionalmente definita, e quindi senza rendere manifesto lo slittamento verso un sistema che non è né realmente parlamentare né presidenziale nelle debite forme.
Cosa succede alle Regioni
Gli ampi poteri legislativi delle regioni erano un ovvio bersaglio. La riforma del titolo V, parte II, della Costituzione, 2001, varata da un governo di centrosinistra alla fine della legislatura, apparentemente per tutelare prerogative dello stato centrale contro la minaccia di una trasformazione assai più radicale voluta dal centrodestra, non ha prodotto buoni risultati. La propaganda a favore della contro-revisione attuale insiste sulle difficoltà di gestire la legislazione concorrente tra Stato e Regioni, e sull’impossibilità di distinguere adeguatamente “per materie” tra le rispettive competenze. Dunque la legislazione concorrente viene abolita (art. 117.3 e 4); competenze prima regionali vengono avocate esclusivamente allo Stato (art.117.1), con ulteriore riserva di legiferare dal centro, su proposta del Governo, anche in quelle residue (art.117.4). Di passaggio “la tutela della concorrenza” diventa “tutela e promozione della concorrenza” (art. 117.2): uno slittamento da difesa contro posizioni monopolistiche e dominanti ad allineamento con quello che sempre più sta diventando il principio cardine della giurisdizione europea, ad esempio in materia di cause di lavoro, e con lo smantellamento di funzioni pubbliche in favore di imprese private; e a conferma di una deriva in cui si inseriscono nella Costituzione scelte politiche della Ue anziché usare il dettato costituzionale come criterio di distinzione.
Che consistenza hanno le residue competenze legislative regionali? Alcuni esempi possono chiarire la vacuità della nuova norma. Che cosa vuol dire “pianificazione del territorio regionale e mobilità al suo interno” quando sono di competenza esclusiva dello Stato, così che chi governa il territorio non ci può mettere bocca, “infrastrutture strategiche e grandi reti di trasporto e di navigazione di interesse nazionale”, “porti e aeroporti civili di interesse nazionale e internazionale”? Ciò che è di interesse nazionale e internazionale non sta a un livello diverso dalla terra su cui vivono e si muovono i “locali”: le stazioni piombano sui centri delle città o condizionano le loro periferie, gli aeroporti ridefiniscono il territorio, i porti hanno un impatto su strutture urbane complesse. I casi dietro la norma hanno nomi noti. La pianificazione del territorio della Valle di Susa (e scelgo un caso in cui non c’è stato conflitto tra Stato e Regione) vuol dire decidere che cosa fare in una valle non larga con un fiume, due strade statali, una ferrovia, un’autostrada, a cui aggiungere un “trasporto di interesse nazionale”, un Tav. La mobilità nelle Regioni vuol dire lasciare a queste ultime il disastro delle ferrovie regionali, volutamente disconnesse dal sistema ferroviario “di interesse nazionale”. Vuol dire peraltro lasciare al loro arbitrio la follia della BreBeMi o del Mose. L’interesse del trasporto nazionale vuol dire poter imporre, se si vuole, la follia del ponte sullo stretto di Messina in zona sismica.
Oppure, su un altro terreno, che vuol dire lasciare alle Regioni non più “la tutela della salute” (art. 117.3), come ora, ma “la programmazione e organizzazione dei servizi sanitari e sociali” (art. 117.3 della revisione)? Non vuol dire che si tutela l’omogeneità del diritto alla salute dei cittadini italiani come obiettivo e regola dell’intervento pubblico (i Lea hanno ormai parecchi anni, a costituzione vigente); al contrario, si definisce una funzione amministrativa. La distinzione per materie, illogicamente reintrodotta battezzando qualche cosa “nazionale” o “internazionale”, ha in realtà una logica congiunturale che può essere rivelata in infiniti particolari. Ma i casi citati rimandano a un punto cruciale. È scomparso con la legislazione concorrente “il coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario”, ossia il luogo dove Stato e Regioni potevano e dovevano discutere di acquisizione, ripartizione e spesa delle risorse finanziarie attraverso cui passa una politica dei servizi ai cittadini. Le risorse autonome degli enti locali erano rimaste indeterminate nel vecchio Titolo V (art.119.2), e tali sono ovviamente rimaste. Di quanti soldi essi possano disporre per erogare servizi (sanitari, sociali, scolastici) dipende da quanto il bilancio dello Stato conferisce loro. È problema della virtù civica, capacità politica ed efficienza amministrativa delle autorità locali impiegarli al meglio, ma c’è un limite al buon uso di risorse insufficienti. Come è noto, in tutti questi anni di restrizioni i tagli dei trasferimenti agli enti locali sono stati molto maggiori che non quelli ai ministeri, per non parlare della sparizione di interi cespiti, come l’Imu. Né sono sempre stati premiati i più virtuosi, anzi.
La nuova costituzione forma quindi il quadro entro il quale il welfare erogato dagli enti pubblici tende a spostarsi dalla prestazione di servizi organizzati stabilmente sul territorio a elargizioni governative, permanenti o transitorie, di somme monetarie senza programmazione, contro tutte le indicazioni proposte in questi anni nella riflessione del centrosinistra sul tema: bonus 80 euro, bonus giovani, bonus mamme, quattordicesime, e così via. C’è uno stile di governo implicito in questa revisione. Così il governo può sostituirsi “ai titolari di organi di governo regionali e locali nell’esercizio delle rispettive funzioni quando è stato accertato lo stato di grave dissesto finanziario dell’ente” (nuovo art. 120.2).
In compenso non vengono minimamente toccati i due peccati originali dell’ente regionale secondo il vecchio Titolo V, quelli che hanno delineato in esso un potere privo di contrappesi, e perciò non già capace di decisioni rapide ed efficienti, ma al contrario incline alla mala gestione. Le Regioni, lasciate libere di scegliere la propria forma di governo (art. 123.1) hanno scelto quella presidenziale, mentre l’art. 126.2 e 3 imponeva che ogni impedimento del presidente eletto direttamente, non solo una sfiducia votatagli dal Consiglio, comportasse lo scioglimento dell’assemblea, che dunque è in ostaggio. Le leggi elettorali maggioritarie che le Regioni hanno scelto, in molti casi con la mostruosità aggiunta del “listino del presidente”, hanno completato quel quadro di presidenzialismo spurio, cioè senza separazione di poteri e contrappesi che è sempre stato l’obbiettivo ultimo dei vari tentativi di riforma costituzionale. Dalla demenza del “sindaco d’Italia” come modello politico nazionale, attraverso il presidenzialismo bastardo degli statuti regionali, fino alla Commissione Letta-Napolitano il percorso è stato coerente: nessun governo dal 2001 in poi ha sollevato davanti alla Corte costituzionale la questione di legittimità per una forma di governo regionale che avrebbe dovuto essere “in armonia con la Costituzione”.
È questo nucleo oscuro dell’ordinamento regionale che la presente revisione lascia intatto, e che probabilmente spiega la complice docilità con cui le Regioni hanno accettato di essere spogliate di gran parte delle loro competenze legislative.
Il “nuovo” ruolo della Corte Costituzionale
Gli apologeti della revisione contrappongono a quella che considerano una forma orami irrimediabilmente obsoleta di garanzia, ossia quella di un equilibrio costituzionale di poteri, una forma nuova che sarebbe costituita da rafforzamento di organi di controllo e potenziamento degli strumenti per la partecipazione popolare. Di rafforzamento della Corte costituzionale, cioè di maggiori garanzie della sua autonomia dal potere politico non c’è traccia. Al contrario, è previsto che sulle leggi elettorali al suo giudizio possa ricorrere preventivamente ¼ della Camera o 1/3 del Senato (art.73.2). Il controllo preventivo di costituzionalità, previsto dalla Costituzione francese del 1958, trascina la Corte in un ruolo di consulenza alle forze politiche che deforma il reciproco rapporto. Mentre il controllo a posteriori lascia interamente al potere politico la responsabilità delle sue scelte, con la Corte come controllore ultimo e una distanza anche temporale dalla decisione politica, il controllo preventivo la costringe in un ruolo di antagonista o concorrente con la maggioranza parlamentare in carica (il lettore può provare a immaginare che cosa sarebbe successo se questa norma fosse stata in vigore al momento in cui fu approvata la legge Calderoli 2005). Invece, una maggiore apertura del diritto di accedere alla Corte per i cittadini avrebbe risultati costituzionalmente assai più fisiologici (sulla medesima legge il giudizio di legittimità costituzionale avrebbe avuto luogo dopo le elezioni dell’aprile 2006, ma prima di quelle del 2013).
Le leggi di iniziativa popolare e il referendum abrogativo
A loro volta, le nuove norme che dovrebbero disciplinare una maggiore partecipazione popolare sono del tutto vuote di potenzialità. Le leggi di iniziativa popolare richiederanno il triplo delle firme (così, dicono, avranno “maggiore forza propulsiva”: nessuno ci aveva pensato), e la Camera con suo regolamento stabilirà come e quando esaminarle e votarle (art. 71.3), mentre, a quanto pare, finora non poteva farlo. Sono anche previsti referendum propositivi o di indirizzo (art. 71.4: regolamento demandato a una legge ordinaria). Invece i referendum abrogativi (art. 75.4) cambiano solo nel senso che, se si raccolgono 800.000 firme, il quorum scende al livello dei votanti alle precedenti elezioni politiche. Tutti capiscono che il problema fondamentale del referendum abrogativo nella storia degli ultimi trent’anni è stato che, quando si sono raccolte le 500.000 firme valide, quando si è raggiunto il quorum, quando si è ottenuta la maggioranza dei votanti, poi il Parlamento, il Governo, e ogni ente locale che lo abbia voluto se ne sono infischiati, e tutto è andato avanti come se il referendum non ci fosse stato. L’unica vera riforma di questa vergognosa prassi sarebbe una norma costituzionale che stabilisse come, in che tempi, con quali vincoli il potere legislativo è tenuto a prendere atto dei risultati referendari. Il resto sono favole per i gonzi.
Le conseguenze della nuova legge elettorale
Mentre nella sua pubblicità il governo continua a dire semplicemente che con la revisione nulla è stato aggiunto ai poteri del governo, i più abili apologeti del testo, come Stefano Ceccanti, illustrano un’argomentazione più complessa, che compare in controluce nella Relazione e che possiamo usare per segnalare la ratio della riforma renziana. In questa argomentazione i poteri dei governi sono ineluttabilmente cresciuti di fatto in tutti i più importanti sistemi politici. Questo fatto avrebbe giustamente prodotto un mutamento dei sistemi elettorali in direzione tale che l’elezione del premier, diventata di fatto diretta, renderebbe i cittadini “arbitri dei governi”, e riequilibrerebbe verso la democrazia un sistema che aveva già perduto irrimediabilmente il suo vecchio equilibrio tra legislativo ed esecutivo. Basterebbe il fatto che il legislativo può sfiduciare il governo a garantire che il sistema rimane parlamentare. Questa posizione spiega a sufficienza perché l’Italicum, ancorché approvato prima della riforma costituzionale, è pensato in realtà come una sua conseguenza, è intrinseco ad essa, ed è irrinunciabile proprio per il ballottaggio a livello nazionale, l’unico che garantisce di fatto l’elezione diretta del premier (un ballottaggio su base uninominale, collegio per collegio, non servirebbe allo scopo). Naturalmente bisognerebbe capire con quali costi politici e istituzionali un parlamento potrebbe sfiduciare un premier che gode di una legittimazione diretta. Che cosa significa in effetti la fiducia conferita a un premier che è già stato eletto dal popolo? Il punto fondamentale di un regime parlamentare è, in effetti, che solo il legislativo è eletto, il governo è nominato. Il punto di un presidenzialismo liberaldemocratico è che l’organo esecutivo, il presidente, è anch’egli eletto direttamente, ma non con il suo parlamento, non con la sua maggioranza incorporata, bensì in un circuito diverso. Questo è invece quello che succede nella combinazione tra revisione costituzionale e nuova legge elettorale. Il potere efficace, ma limitato, che è stato l’obbiettivo delle costituzioni moderne dipende da un equilibrio che sta, da un lato, nella possibilità per i cittadini di eleggere un potere legislativo ragionevolmente pluralista, senza l’artificiosa riduzione operata dalle leggi elettorali ipermaggioritarie; dall’altro, nella loro libertà di eleggere separatamente legislativo ed esecutivo, che risultino essi poi politicamente omogenei oppure eterogenei. Si richiede infinita ingenuità dei cittadini ed enorme capacità di manipolazione del governo per far credere che un nuovo equilibrio, ossia un’efficace limitazione del potere dell’unico soggetto politico-istituzionale, il bicefalo governo legislatore, si possa formare grazie al potenziamento di organismi di garanzia (che non sono poteri, e non hanno legittimazione democratica propria), alla responsabilità dei vari livelli di governo (le nuove potenti regioni?), e al ruolo delle opposizioni (demandato ai regolamenti parlamentari in mano alla maggioranza), come propone Ceccanti.
Il 4 dicembre non si vota sul governo Renzi, ma non si vota neppure solo su questo testo portatore di un disegno istituzionale confuso, incoerente e opaco. Si vota contro il disegno politico trentennale che esso porta a un primo compimento, in attesa di ulteriore evoluzione.