Nel racconto della crisi dell’editoria in Italia spesso il declino dei grandi giornali viene narrato come un evento quasi inevitabile dovuto principalmente a due fattori: la difficile transizione nell’era digitale, con Internet che arriva d’improvviso a sparigliare le carte invadendo di contenuti gratuiti il mercato dell’informazione; e, secondo fattore determinante, la crisi economica e finanziaria globale del 2008. Come dire: cosa potevano fare in questi ultime tre lustri le navi ammiraglie dell’editoria nostrana se non imbarcare sempre più acqua? Ma è proprio così? Basta il combinato di questi due fattori a spiegare (quasi) tutto?
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L’industria dei quotidiani in Italia vediamo come, negli anni, tra alti e bassi, il volume delle copie vendute dai quotidiani abbia raggiunto un picco nel 2006 (con 1,68 miliardi di copie complessive in un anno) per poi continuare a calare.
Quel volume di vendite ha rappresentato l’ultimo, oggi, irraggiungibile picco. Cosa è successo? Molte cose, certo, ma sicuramente un fattore determinante è stata la crisi di un fenomeno editoriale tutto italiano: quello dei “collaterali”. La messa in commercio assieme al giornale di libri, enciclopedie, videocassette e dvd era stata la soluzione trovata dagli editori per rilanciare le vendite in edicola molto prima che cominciasse la concorrenza dei contenuti gratuiti su internet. E per un certo periodo ha funzionato molto bene.
Ma l’eccessivo entusiasmo attorno a questo tipo di vendita ha portato a saturare il mercato asfissiando il lettore con ogni tipo di articoli e gadget editoriali. Il risultato è stato che, secondo stime della Fieg (la Federazione degli editori dei giornali italiani) i ricavi dalla vendita di prodotti collaterali sono crollati nel biennio 2006-2008, con una flessione del 23% e del 49%.
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Secondo rilevazioni di Datamediahub i quotidiani italiani devono rendere invendute intorno al 31-33% di copie sul totale di quelle diffuse. Una percentuale nettamente più elevata rispetto ad altri Paesi come ad esempio la Francia dove le copie rese si fermano al 14-15%. Una differenza elevata perché in quel 16-18% in più rispetto a realtà meglio organizzate ci sono risorse economiche rilevanti letteralmente gettate via dall’industria dei quotidiani italiana. Un altro grosso difetto sul quale poco o niente si è riusciti a intervenire in Italia è il bassissimo peso degli abbonamenti sulla vendita totale dei quotidiani.
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Per un grande gruppo come Espresso-Repubblica i ricavi della divisione digitale rappresentano, nell’ultima semestrale del 2016, solo il 9% del fatturato totale; per Rcs – nonostante il piano industriale 2013/2015 puntasse a portarli al 21% – non hanno mai superato quota 16% sui ricavi totali. Unica eccezione il Gruppo 24 Ore con un peso del digitale sul fatturato del 32%. I dati del gruppo sono riferiti a giugno di quest’anno, ma sulla loro attendibilità ora viene sollevato più di un dubbio. Resta il fatto che uno dei grossi problemi per gli editori, e questo non solo in Italia, è come monetizzare il traffico e l’audience sul web. Molte testate straniere, da quelle tradizionali come il New York Times a quelle native digitali come BuzzFeed, stanno acquistando, o sviluppando al loro interno, tecnologie e competenze per leggere e fornire i dati necessari ai loro clienti con la stessa precisione millimetrica di Facebook e Google (che sul digitale sono gli assoluti padroni). Ma in Italia in questo senso si è fatto ancora molto poco, il che ha ridotto ancora di più il valore del traffico dei siti dei giornali agli occhi degli investitori pubblicitari.