La ragioni dell’accanimento contro Julian Assange non hanno molto a che fare con la personalità dispotica e paranoica dell’uomo, né con le sue scelte di campo. Riguardano invece due pilastri della società occidentale che si scoprono improvvisamente in pericolo: la politica e i media, che del controllo politico sono da sempre estensione naturale.
Per queste ragioni Assange gode di cattiva reputazione e di cattivissima stampa: il fondatore di Wikileaks oggi rappresenta tutto quello che il potere teme di Internet. E anche tutto quello che Internet dovrebbe temere di sé stessa.
La storia di Wikileaks del resto può essere letta come una metafora della rete, della sua assoluta mancanza di filtri predeterminati, della facilità con cui è possibile mettere in discussione il principio di autorità. I semplificatori la chiamano “anarchia”, i poliziotti “far west”, per molti di noi è la ragione stessa per cui la rete ha senso.
L’unico serio infortunio di Wikileaks, l’unico grande errore che si può imputare con nettezza all’associazione nel suo breve periodo di attività, è stato quello di aderire in maniera eccessivamente formale a questa idea di trasparenza digitale a cui Internet ci ha abituato.
Per il nerd stupido che abita nella testa di Assange i nomi delle persone contenuti nei cablogrammi pubblicati non erano un problema, ma solo una piccola parte indispensabile di uno scenario informativo che non doveva essere modificato, pena la sua irrimediabile adulterazione. Lo scatto infinitesimale che separa la perfezione del dato dalla sua manipolazione. È il danno irreparabile – a ben vedere – causato da chi ha passato troppo tempo dietro lo schermo di un computer senza conoscere il mondo fuori. Una sorta di autismo digitale che condanna il nerd ad una oggettiva difficoltà nel comprendere l’ambiente che lo circonda.
Una volta charito questo – stabilite le necessarie responsabilità – tutte le residue colpe di Wikileaks si sciolgono come neve al sole. Pubblicare sul web documenti autentici ricevuti da terzi non è una colpa, da qualsiasi lato la si osservi. Quello che resta dopo è molto peggio ma ugualmente reale. È la rappresentazione inedita che per un breve periodo Wikileaks ci ha dato di un mondo corrotto e perduto, un carrozzone che noi stessi abbiamo creato e di cui non abbiamo avuto occasione di vergognarci abbastanza; diplomazia, doppiogiochi, agenti corroti, omicidi, tragedie e crudeltà inutili viste dal display di un elicottero da combattimento e poi ostinatamente negate.
Tutto questo schifo sopravviverà alla fine di Julian Assange e di Wikileaks. E poco importa se un tribunale di cartone nei giorni scorsi ha dichiarato illegittimi i blocchi che Visa e Mastercard avevano imposto ai loro clienti desiderosi di aiutare Assange a suo tempo (ormai è tardi) in nome di una etica di rete anch’essa temuta come la peste nei palazzi del potere. Il diavolo a volte si racchiude nei giri del cronometro, posticipare è più che sufficiente.
Nelle prossime settimane quando penseremo all’annientamento di Assange in corso d’opera, dovremo per forza di cose pensare anche all’annientamento di Internet in quanto luogo di una alternativa identitaria, dove le miserie delle diplomazione mondiale potevano essere descritte senza imbarazzi eccessivi e dove questa cronistoria generava poi conseguenze.