Nell’attesa che i media italiani finiscano di tartassare Alex Scwhazer e inizino a fare analisi degli accadimenti come ha fatto Stefano Tesi
Se crediamo all’atleta, che dice (inverosimilmente) di aver fatto tutto da solo, dallo scandalo escono tutti a pezzi: non solo la Federazione e il Coni, ma anche l’entourage di Alex, perché è da non credere che un tesserato-personaggio di quel livello venga lasciato libero di agire in solitudine (in tutti i sensi: possibile che a un olimpionico, a tre settimane dalla gara della vita, sia consentito di allenarsi per lunghi periodi all’estero senza avere al seguito un allenatore, un preparatore, un tecnico e uno staff dedicati, un manager, un assistente, qualcuno insomma per non dire della fidanzata-pattinatrice e campionessa mondiale che cade dal pero? Mah… Se invece gli è consentito, è anche peggio). E ovviamente ne esce distrutto, come ne è uscito, lo stesso marciatore: tanto per la disonestà quanto per l’ingenuità, visto che è inspiegabile il motivo per il quale un campione esperto possa solo concepire di iniettarsi sostanze illecite che sa perfettamente essere individuabili al primo banale controllo. A meno di non pensare alla volontà di un suicidio sportivo.
Se non gli crediamo, e quindi non siamo disposti a bere l’affermazione che Schwazer si è “autoamministrato”, il quadro è perfino peggiore: perché vorrebbe dire o che l’intero sistema è gestito in maniera dilettantesca, artigianale, pressappochistica (il che, pur con tutte le possibili tare legate all’”italianità”, è altrettanto incredibile: qui si parla di professionismo, di Olimpiadi, di grandi organizzazioni, di interessi economici e di sponsor, non di bocciofile), al punto da poter essere aggirato anche da un singolo scellerato, o che invece il sistema stesso è complice, colluso, consapevolmente negligente.
Che l’organizzazione, cioè – italiana e non: diffido di chi, in un mondo globalizzato, ragiona in termini di confini nazionali o amministrativi: siamo seri, lo sport è un’industria planetaria – è piena di buchi, di zone grigie, di punti deboli, di lacune più o meno tollerate, di porti franchi, di figure intermedie nel nome di un’ipocrisia o, più probabilmente, di un cointeresse generale più grandi di qualsiasi sbandierato principio.
Dal che consegue ciò che peraltro è evidente e reso palese dalla concatenazione dei fatti. Ovvero che, pur forse con mille discontinuità e senza una sistematicità assoluta, il doping fa parte dello sport a tutti i livelli e farla franca o meno è solo una questione di organizzazione, di raffinatezza dei metodi, di abilità gestionale, di capacità di relazione e magari pure di contiguità con i controllori.