E quando si tratta di impiantare negli stabilimenti a rischio (non solo l’Ilva, ma anche Eni per esempio) le centraline per i rilevamenti, il direttore dell’impianto, l’ingegnere Capogrosso se ne esce: «Col cavolo che gli consentiamo – dice in sostanza – di metterle nell’area dello stabilimento». E infatti chissà perché le centraline sono fuori dai confini dell’acciaieria.
Ma in un’altra telefonata, il responsabile – cacciato giusto ieri dal presidente dell’azienda tarantina, Bruno Ferrante – delle relazioni istituzionali Archinà, se la prende con la gestione interna delle «comunicazioni»: «Purtroppo ancora una volta sono costretto a dire che avevo ragione. Io ho sempre sostenuto che bisogna pagare la stampa per tagliarle la lingua, cioè pagare la stampa per non parlare».
Quando escono dall’aula del Riesame, gli avvocati dell’Ilva sono raggianti: «Noi abbiamo sostenuto che l’azienda ha sempre rispettato le prescrizioni dell’Aia – dice l’avvocato De Luca – e tutti i rilevamenti dell’Arpa non sono mai usciti dai parametri di legge. Le polveri? A Taranto nei quartieri più esposti, Tamburi e Borgo, non sono mai stati superati i 35 microgrammi per metro cubo. A Milano, sono 52 di media».