Il marchettificio dei giornali di moda e non solo

Via Linkiesta

Dicesi marchetta quel pezzo che non parte esattamenteda un confronto genuino delle idee all’interno una redazione, ma che viene confezionato strumentalmente per assecondare interessi altrui, completamente distanti e diversi da quelli dei lettori. C’è la marchetta a un politico, c’è la marchetta a un attore o a un film in uscita, c’è la marchetta alla nuova macchina, c’è la marchetta economico-finanziaria, c’è la marchetta di moda, ecc, ecc.

Laddove esistono consistenti interessi economici, la marchetta è sempre in agguato. E badate bene, nei giornali non è detto che tutto ciò che non va parta necessariamente da un direttore, spesso tra le seconde e terze linee decisionali si annidano giornalisti infedeli che sono in grado di confezionare polpette avvelenate senza che il numero uno ne sia esattamente a conoscenza. Insomma, come vedete il mondo della marchetta è assai complesso.

Il mondo della moda e dei suoi più importanti inserzionisti pubblicitari è accompagnato da una fiorente letteratura sull’argomento. E le ragioni sono facilmente intuibili. Sino a qualche anno fa, le case di moda, i grandi investitori nel campo dell’abbigliamento e degli accessori, arrivavano a coprire il fatturato pubblicitario dei giornali per una parte molto cospicua. Ancora oggi sono una vera potenza. Una risorsa molto importante per gli editori. Una garanzia di sopravvivenza per molte pubblicazioni. Capirete che quando il manico del coltello è così decisamente nelle mani di chi mette i soldi, non è così semplice districarsi in quella zona grigia che sta tra il giornalismo onesto e la inevitabile (e interessata) piaggeria.

A mia memoria, e sono un discreto e appassionato lettore di giornali (e mi piace anche seguire l’evoluzione della moda, quando è spiritosa e intelligente), non ricordo una sola stroncatura di uno stilista da parte di un giornale. Possibile? Possibile. Possibile che non ci sia stata una passerella in cui il/la cronista abbia mai pensato, e poi magari anche scritto, che quella nuova collezione era, per dirla alla Fantozzi, «una cagata pazzesca»? Possibile. Se per caso l’avete letta, vi chiedo la cortesia di mandarmene copia.

È un settore unico nel suo genere, la moda, insieme a quello della macchine (per cui, molti e molti anni fa venne creata appositamente da tutti i quotidiani la famigerata «pagina dei motori»). In tutti gli altri settori merceologici, c’è ancora la speranza che si possa leggere qualcosa di critico, di serenamente critico. Nella moda no.

È per questo che mi sono molto sorpreso, un paio di giorni fa, quando è scoppiata una certa polemica interna al mondo della moda, che però ha una sua morale «giornalistica». Sull’inserto Affari e Finanza di Repubblica è uscito un articoletto che è stato sapientemente ripreso dalla nostra Marta Casadei, nel quale si racconta di una certa rivolta del web contro una ragazzina che con il suo blog farebbe tendenza. Lei, cioè, sarebbe una trend-setter, una tipa che spingerebbe quattro pirla a comprare una maglietta al posto di un’altra.

Nella visione più moderna ed economica delle aziende che fanno moda, questi nuovi social sarebbero un veicolo pubblicitario interessante: si spende molto meno che comprare una pagina di giornale e la resa dovrebbe essere assicurata comunque. Ma perché questa tipa, titolare del blog The blonde salad, è stata massacrata? Perché il marchio Stefanel, che voleva radunare un po’ di queste teste da social network per una sua presentazione, da questa signorina si è sentito rispondere che voleva la «grana». Sì, voleva proprio essere pagata a suon di bigliettoni, ritenendosi evidentemente un traino particolarmente forte.

Spesso sul web si fa la morale un tanto al chilo, qui l’hanno fatta un tanto al quintale. L’hanno accusata proprio sul fronte etico: ma come, tu sei una che identifica le tendenze, che indica una strada, che ci dice questo è buono, questo è cattivo, proprio tu non puoi venderti per quattro sporchi denari! Insomma, Alice nel Paese delle Meraviglie.

Cioè, noi siamo invasi dalle marchette sui giornali, fatte da pregiatissimi giornalisti professionisti iscritti all’Albo, e ce la vogliamo prendere, sul piano della moralità, con una signorina che non ha alcun obbligo etico nei confronti della società, che può fare legittimamente i suoi cavolo di interessi, che non ha riflessi deontologici, che non è iscritta ad alcun ordine professionale? Ma siamo seri, questo è un mondo alla rovescia, è come veder l’erba dalla parte delle radici. Datevi un’occhiata più in profondità ai nostri giornali (ma non è che ci voglia un cane da tartufo) e poi ne riparliamo.

1 commento su “Il marchettificio dei giornali di moda e non solo”

  1. Il punto non è tanto la marchetta in sè, che fa fisiologicamente parte delle espressioni, anzi delle inclinazioni commerciali naturali della società (non solo della nostra, di tutte) ed è quindi ineliminabile, sempre ammesso che sia giusto eliminarla visto che è in qualche modo, appunto, "naturale". Il punto è invece che la marchetta è la regola, la prassi comune. Anche nel mondo dell'informazione, che non può esserne del tutto immune ma da cui si pretende una minima dose di terzietà. E non parlo della marchetta "diretta", semplice, di primo grado (io sottobanco do qualcosa a te in cambio di qualcos'altro), ma complessa, organizzata, frutto di marchette concatenate che fanno, appunto, sistema. Perfino strategia. Anni fa, in un post che ha fatto discutere e anche litigare (http://blog.stefanotesi.it/?p=85) posi il caso di una collega che addirittura "annunciava" pubblicamente che quanto stava per scrivere era una marchetta ma che, essa essendo esplicita, non era più tale. Commenti?

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