La sentenza Eternit è una sentenza miliare, pietra che segna il percorso di una giustizia che non può veder finire qui il suo cammino. Chi scrive ci è nato a Casale Monferrato e come tutti in città ha visto i suoi morti. Come tutti sa di essere il prossimo della lista perché il male, quel male polverizzato che si conficca nei polmoni, ha una latenza che va dai quindici ai quarantacinque anni. E il picco di mortalità deve essere ancora raggiunto.
La sentenza ha parlato di “una grande ingiustizia internazionale che si è consumata e si sta consumando in tutto il mondo”. E perché l’eternità del materiale non sia – oltre che la durata del male – la misura dell’ingiustizia, occorre volgere lo sguardo oltre il meridiano della nostra pena in parte appagata, ricomposta, dalla sentenza di condanna a sedici anni di reclusione per i magnati della holding, lo svizzero Stephan Schmidheiny e il barone belga Louis de Cartier.
Casale Monferrato è stata sede del primo e più grande impianto dell’Eternit, è stata definita la città simbolo della lotta all’amianto. Ma la sentenza non è una vittoria: solo un’occasione di richiudere le ferite. Solo il punto di partenza per una lotta di più ampio respiro. Il risultato, finalmente, sta sullo zero a zero. Casale Monferrato è appena un grano di giustizia. Perché sono 500mila le vittime d’amianto stimate in Europa entro il 2029, mentre l’estrazione e la lavorazione della fibra assassina sono in aumento grazie alla richiesta di Paesi dall’economia in feroce crescita, come Cina e India. I produttori, gli aguzzini, stanno altrove: Canada, Brasile e Russia.