Come è possibile concludere un ciclo di appuntamenti – quelli del Journalism Lab a cura di Vittorio Pasteris all’interno del Festival di Perugia – in cui in modo brillante e appassionato per giorni si è parlato di nuove iniziative digitali, blog, social media, di modelli di business sostenibili, discutendo di precariato e di compensi che oggi i giornalisti freelance ricevono in Italia? Significa che il giornalismo italiano non è pronto per una sana e qualitativa rivoluzione digitale dell’informazione e che alla base del sistema c’è qualcosa che non funziona.
In Germania un giornalista freelance percepisce in media 2147.00 euro al mese (dato dell’associazione dei giornalisti in Germania) e 127 euro al giorno per un reportage; in Inghilterra si parla di 170 sterline a pezzo, in Svizzera per un normalissimo pezzo di cronaca, diciamo di 3.500 battute, siamo sui 78 euro, 200 euro o più se si tratta invece di un reportage. E in Italia? In Italia come ha recitato il presidente dell’Ordine dei giornalisti Enzo Jacopino, ci sono testate che retribuiscono i loro collaboratori 4.30 euro al pezzo lordi o 325.00 euro lordi per due mesi di lavoro al Mattino di Napoli. E parliamo della carta stampata perchè per l’online c’è chi sostiene che non ci sia nemmeno bisogno di pagare un giornalista perchè in fondo gli si dà visibilità.
Per risolvere questa penosa situazione Jacopino e Roberto Natale, presidente FNSI, propongono leggi per migliorare il contratto, il riconoscimento del contratto autonomo, fare uscire gli editori dalle forme di capolarato nelle quali si trovano, creare una sensibilità diversa nelle redazioni. C’è in merito una proposta di legge in parlamento che prevede di togliere i finanziamenti pubblici, il diritto a ricevere contributi, a quelle testate che non retribuiscono degnamente i loro collaboratori.
Vittorio Pasteris è invece a favore di una pulizia a fondo del sistema e di una riorganizzazione centralizzata dell’Ordine per avere una maggiore efficacia e immediatezza nella risposta. E perchè no, anche di una protesta a testa bassa di tutti i precari contro gli editori con l’appoggio dell’Ordine e del FNSI.
Caro Vittorio,
ti premetto che mi sfugge – senza dubbio per una mia lacuna culturale – la differenza tra giornalismo digitale e giornalismo "normale": a me paiono due modi diversi di fare lo stesso mestiere.
Ma detto questo, e senza stare a ripetere cose già dette mille altre volte sulla questione dei compensi dei freelance, mi rimane la sensazione che in proposito ci sia un grande, conformistico abbaglio collettivo.
Una cosa è infatti discutere di una soglia minima dei compensi, dove per tali si intendono remunerazioni più alte o più basse, ma comunque remunerazioni. Un'altra è perdere tempo a discettare di compensi simbolici che, in quanto appunto simbolici, vanno assimilati al volontariato e non al corrispettivo di una prestazione professionale.
Non esiste nessuna logica per la quale qualcuno dovrebbe – non occasionalmente, ma per anni, a volte per decenni – accettare compensi fittizi e al tempo stesso rifiutare altre e assai meglio remunerate
occupazioni.
Di fare il giornalista non l'ha ordinato il dottore. Se lo faccio per campare, ciò è possibile solo con compensi che mi consentano di sopravvivere. Altrimenti vivo d'altro e sono un hobbista, un dilettante o, appunto, un volontario.
Lo so che è una realtà brutale, ma è così.
Che altro c'è da aggiungere?
Come posso accettare (e vivere con) 20 euro per un giorno di lavoro, quando un manovale dei pomodori al nero ne prende 5 l'ora?
Se lo accetto, sono un masochista, non un giornalista. Sono io il primo responsabile del mio stato di indigenza, quindi non devo protestare perchè faccio il giornalista allo scopo di soddisfare la mia perversione, non come un'attività professionale (nel senso della quale la redditività è un fattore costitutivo).
Scusa la schiettezza.
Ciao, Stefano.