Biliogiornalismo

Via Lettera 43

Anche al festival del giornalismo di Perugia, quindi anche a casa di chi crede nell’informazione “schiena diritta”, sì è fatto sentire un fenomeno che sembra il contrappasso inaggirabile della cultura liquida. La briatorizzazione, la billionairizzazione, quella che i semiologi chiamano, da “vedette”, “vedettizzazione”. Quel fenomeno tipico degli avventori del locale di Flavio Briatore, il Billionaire, che fa sì che si vada in un posto a vedere il personaggio, qualsiasi personaggio, purché famoso.
Scena tipica: Filippo Facci che gira per i fatti suoi, un ammiratore l’incontra, gli fa i complimenti e poi gli dice: «E mi raccomando, mi saluti tanto il suo direttore Feltri». Non tutti sanno che Facci e Vittorio Feltri non vanno d’accordissimo, si sono anche scritti articoli feroci l’uno contro l’altro. Ma ognuno tiene a dire qualcosa alla star appena incontrata.

E Luca Sofri sul Post, ha raccontato i lati belli del festival perugino. Il fatto per esempio che molti dei protagonisti avessero meno di cinquant’anni. Ma uno dei collateral damage era anche il fatto che, anche nel regno di un risveglio culturale a quanto sembra imminente e progressivo, ci fosse anche un po’ di vedettizzazione o billionairizzazione. Segno dei tempi. Forse inevitabile. Per esempio Paola Caruso, la precaria del Corriere della Sera che nel dicembre 2010 ha fatto lo sciopero della fame, in quel periodo ha ricevuto un migliaio di mail al giorno (parecchie di insulti e parolacce) e almeno una ventina di lettere d’amore.
Perfino la proposta di un cuoco professionista che si offriva, per convincerla a mangiare, di cucinare regolarmente per lei. Ma quando, intervenendo al dibattito al festival perugino, si è chiesta come mai la figura del collaboratore non venisse contemplata nel contratto di categoria, le parole sono cadute nel nulla. Risposte zero. Come i commenti.

«Al festival del giornalismo succede quello che succede anche ai festival della letteratura» racconta a Lettera43.it il semiologo e docente alla Iulm di Milano Paolo Fabbri. «La gente va ad ascoltare lo scrittore, e gli interessa poco del libro che ha scritto».
Il culto della personalità trasportato dall’ambito politico, per esempio Mahatma Ghandi, Joseph Stalin, Benito Mussolini di cui parlava un bel gruppo rock, i Living Colour, a quello estetico. Ma, sostiene Fabbri: «Nel giornalismo questo diventa un problema più serio, perché il giornalista dovrebbe avere criteri di obiettività “superiori”. Invece il giornalista diventa opinionista: conta sempre più lui e sempre meno quello che dice».

E da qui le code per ascoltare Beppe Severgnini mentre fa Beppe Severgnini, Marco Travaglio perché fa Marco Travaglio, Bill Emmott perchè billemmoteggia e via novellando. Un processo di auto citazione che è né più e né meno antinformativo. «La differenza classica che si fa tra i semiologi è questa» continua Fabbri. «Una cosa è dire “piove”, un’altra è affermare: “io dico che piove”. La prima è un fatto oggettivo, la seconda è un fatto soggettivo, come per esempio succede agli inviati speciali, che la usano per dare un tono di testimonianza al discorso. Ma la fase successiva è quella dell’opinionismo. Ed è quella in cui il contenuto perde ogni rilevanza».