Sfida in corso nello stabilimento Fiat di Melfi, dove oggi, come aveva disposto una sentenza della magistratura del lavoro, i tre dipendenti licenziati ingiustamente sarebbero dovuti tornare al loro posto. Al cambio turno delle 13.30 i tre operai della Fiat – Giovanni Barozzino, Antonio Lamorte e Marco Pignatelli – sono entrati nello stabilimento di Melfi (Potenza), fra gli applausi dei colleghi, ma sono stati bloccati dalla vigilanza interna che li ha invitati a seguirli nel loro gabbiotto. I tre operai erano acompagnati dagli avvocati e da un ufficiale giudiziario, che ha il compito di notificare il provvedimento di reintegro del giudice del lavoro di Melfi.
Poco dopo le 14, l’azienda ha comunicato che ai tre operai sarà impedito l’accesso alle postazioni nella catena di montaggio ma due dei tre lavoratori, delegati Fiom, potranno continuare a svolgere attività sindacale all’interno della fabbrica. La Fiat metterà a disposizione degli operai la ‘saletta sindacale’ dove restare durante il turno di lavoro, in attesa del pronunciamento del giudice sul ricorso della casa automobilistica. Una proposta rigettata dai dirigenti della Fiom e i legali dell’organizzazione sindacale: poco dopo le 15, i tre dipendenti sono usciti dall’azienda. “Ci volevano relegare in una stanzetta predisposta all’attività sindacale – hanno detto le tre tute blu – non dando piena attuazione alla sentenza del giudice del lavoro che aveva predisposto il nostro totale reintegro”.
Mese: Agosto 2010
La mela contolla il tuo Iphone
Via Pino Bruno Perseverare è diabolico, ma Apple insiste e gioca al Grande Fratello orwelliano. Lo U.S. Copyright Office, cioè l’agenzia federale statunitense che sovrintende al diritto d’autore, e la Library of Congress, la più grande biblioteca pubblica del mondo dicono che la pratica del jailbreak non è illegale? Chi se ne frega, sembra rispondere … Leggi tutto
Gli sdoppiati
Come chiamarli? Innamorati delle poltrone. O dei gettoni. O di entrambi. Difficile a dirsi. In Piemonte è scivolata via senza lasciare la minima traccia tutta la polemica sui privilegi e sui costi della casta e cioè del ceto politico italiano. Dalle nostre parti la malattia è ancora più grave e si allunga ogni giorno l’elenco di parlamentari, consiglieri regionali e titolari di altre cariche che siedono contemporaneamente su due o tre poltrone e non fanno nulla per nascondere la loro bramosia di incarichi e relativi stipendi. Nell’accaparramento delle cariche il centrodestra non ha rivali e distanzia di molte lunghezze sia i rappresentanti del centrosinistra che gli alleati della Lega.
Incominciamo dai deputati del Pdl Osvaldo Napoli, Maria Teresa Armosino e Marco Zacchera. Napoli siede in Parlamento dopo aver lasciato in eredità, come fosse un feudo personale, il Comune di Giaveno alla ex compagna Daniela Ruffino, che indossa anche i panni di consigliera provinciale (e ambisce a un incarico nel sottogoverno regionale) ed essersi fatto eleggere primo cittadino di Valgioie, carica quest’ultima che gli ha consentito di diventare vicepresidente dell’Anci (un posticino di potere discreto ma parecchio influente). Maria Teresa Armosino, una volta la piemontese preferita dall’ex potente ministro Claudio Scajola, divide la sua settimana tra le presenze a Montecitorio e la carica di presidente della Provincia di Asti. Marco Zacchera, un tempo fedelissimo di Gianfranco Fini è deputato da 5 legislature: recentemente ha pensato bene di farsi eleggere anche sindaco di Verbania, la sua città. Ma forse tra i parlamentari il caso più clamoroso di cumulo delle cariche è quello che vede protagonista l’ex missino diventato leghista Gianluca Buonanno, che ha lasciato la Regione per restare onorevole e simultaneamente è sindaco di Varallo, vicesindaco di Borgosesia e come se non bastasse fino al giugno 2009, poco prima del commissariamento, era anche il numero due dell’amministrazione provinciale di Vercelli.
Ragionando sulle leggi ad aziendam
Per questo il mio dubbio, dopo l’articolo di Giannini, è pesante. Leggendo ho appreso che non si tratta più di accettare una proprietà che può piacere oppure no ma che non ha nulla a che fare con le scelte editoriali, cioè con l’azienda nella sua essenza. Stavolta è la Mondadori in quanto tale a essere coinvolta, non solo il suo proprietario per i soliti motivi che non hanno nulla a che fare con l’editoria libraria. Quindi stavolta come autore non posso più dire a me stesso che l’editrice in quanto tale non c’entra nulla con gli affari politici e giudiziari del suo proprietario, perché ora l’editrice c’entra, eccome se c’entra, se è vero che di 350 milioni dovuti al fisco ne viene a pagare solo 8,6 dopo quasi vent’anni, e senza neppure un euro di interesse per il ritardo, interessi che invece a un normale cittadino nessuno defalca se non paga nei tempi dovuti il bollo auto, il canone tv o uno degli altri bollettini a tutti noti.
Eccomi quindi qui con la coscienza in tempesta: da un lato il poter far parte di un programma editoriale di prima qualità venendo anche ben retribuito, dall’altro il non voler avere nulla a che fare con chi speculerebbe sugli appoggi politici di cui gode. Da un lato un debito di riconoscenza per l’editrice che ha avuto fiducia in me quando ero sconosciuto, dall’altro il dovere civico di contrastare un’inedita legge ad aziendam che si sommerebbe alle 36 leggi ad personam già confezionate per l’attuale primo ministro (riprendo il numero delle leggi dall’articolo di Giannini e mi scuso per il latino ipermaccheronico “ad aziendam”, ma ho preso atto che oggi si dice così). A tutto questo si aggiunge lo stupore per il fatto che il Corriere della Sera, gruppo Rizzoli principale concorrente Mondadori, finora abbia dedicato una notizia di poche righe alla questione: come mai?
Levi, Levi, Anselmi, La Stampa
Quando Giorgio Levi tenta la prima scalata a La Stampa è il 1974. Reduce del Sessantotto, cultura balbettante, fuori corso all’università, quattro facoltà cambiate, nemmeno una conclusa, nessuna laurea. Indossa giacche di velluto liscio come Robert Reford in “Tutti gli uomini del presidente” e mette il taccuino intonso nella tasca posteriore dei pantaloni come Dustin Hoffmann. Ha l’incrollabile convizione che il suo mestiere è quello del giornalista. Ma non in un posto qualunque, il suo è La Stampa.
Il direttore Arrigo Levi nel 1974
Silvio ci ha rotto i gommoni
Via L’Unità L’iniziativa di un gruppo di ragazzi non legati a nessun partito: «Volevamo dire che siamo stanchi di averlo come premier…». L’aereo partito da Lavinio ha sorvolato Anzio, Nettuno e altri tratti della costa laziale con lo striscione «Silvio ci hai rotto li… gommoni». «Volevamo dare un messaggio allo stesso tempo ironico ma deciso … Leggi tutto
Maglione: il paese tagliato fuori da Telecom
Per un po’ hanno pazientato, cercando di far buon viso a cattiva sorte. Poi, con il passare dei giorni, anche la calma più olimpica è andata a farsi benedire. Così, è scoppiato il caos: c’è chi è andato in Comune a battere i piedi e chi si è presentato dai carabinieri per fare denuncia. E chi, esasperato, si è addirittura trasferito dai parenti che vivono in altri Comuni per far fronte all’emergenza. Il sindaco, dopo aver scelto la diplomazia, è passato alle vie di fatto presentando due esposti: uno indirizzato al Prefetto, l’altro alla Procura di Ivrea.
Benvenuti a Maglione, paese di 480 anime, ultimo della Provincia di Torino prima di sconfinare nel terre del Vercellese e del Biellese. Qui, dall’8 agosto, i telefoni suonano muti e la popolazione (cellulari a parte, ma anche in questo caso la copertura è minima) risulta isolata dal resto del mondo. Alcuni turisti inglesi, arrivati fin qui per ammirare i murales, non hanno risparmiato qualche battuta sarcastica ironizzando sull’efficienza della burocrazia italiana. Ma c’è poco da scherzare: l’ufficio postale minaccia di chiudere, da giorni dal Comune non si possono né ricevere né effettuare telefonate e l’unico ristorante del paese è tagliato fuori, così come i quasi 50 produttori agricoli di pesche e tutti i privati che con il telefono lavorano e fanno affari. Per non parlare della popolazione anziana, che qui rappresenta il 50 per cento dei residenti. Pochi giorni fa, tanto per fare un esempio, una novantenne che vive sola ha dovuto ricorrere ai carabinieri della stazione di Borgomasino per poter telefonare alla figlia.
I bilanci dell’esercito di carta di Berlusconi
Via IlFattoQuotidiano Costano tanto i manganelli mediatici dei berlusconiani. Il paradosso di Libero e de Il Giornale, i due giornali più liberisti e antistatalisti è che non potrebbero stare sul mercato. Senza i soldi regalati dagli azionisti dovrebbero dimagrire o chiudere i battenti. Nel caso di Libero c’è l’aggravante del contributo statale: 20 milioni di … Leggi tutto
Un Blackberry Androide ?
RIM’s new BlackBerry 6 operating system and apps platform still isn’t in the same league as its arch rivals, Apple’s iPhone and Google’s Android. So it’s time for RIM to make a difficult, but important move: Stop wasting time developing its own operating system and apps platform, and switch the BlackBerry to Android, which is booming with success. The sooner, the better, before it’s too late.
As Wall Street is starting to figure out, RIM still doesn’t have a credible answer to the iPhone or Android. While RIM is still selling plenty of BlackBerry devices — thanks to international expansion and big sales at carriers — it’s not a software leader anymore. As a result, RIM is losing the high-end of the smartphone market to Google and Apple, and risks becoming a low-end, low-margin player, or worse.
RIM is the new Palm, in a sense. And don’t forget what happened to Palm, even after it miraculously created a decent new OS from scratch. (The sad twist of irony is that RIM could have bought Palm and its solid new WebOS platform, before it completely blew the deal.) But a switch to Android could at least give RIM a chance to take back some of the high-end buyers, for several reasons:
Obituary: Tiberio Murgia
E’ morto Tiberio Murgia uno dei più straordinari caratteristi del cinema italiano La sua vita è stata come un suo film: agrodolce Dopo qualche tempo però inizia ad intrattenere una relazione con una compagna di partito, a seguito della quale, per lo scandalo destato, viene espulso dal PCI. Murgia emigra quindi in Belgio a Marcinelle, … Leggi tutto
Statue licenziose
Una scultura di Lea Vivot davanti alla sede in Praga delle lotterie cecoslovacche