Governi e organizzazioni si stanno producendo in una gara di umanità per il Pakistan: la World Bank, per esempio, presterà 900 milioni di dollari, il Giappone 10. Anche gli appartenenti di Jamaat-ud-Dawa (JuD), Sipah-e-Sahaba, Jaish-e-Muhammad, Lashkar-e-Taiba, Harkatul Jihad al-Islami, Harkatul Mujahideen, Hizbut Tahrir e Lashkar-e-Jhangvi hanno montato diverse decine di campi di aiuti in diverse parti del paese, hanno raccolto milioni di rupie per i sopravvissuti e sono attivamente impegnati nelle operazioni di salvataggio. Sono utilissimi e, grazie alla struttura paramilitare di molti di loro, immagino siano anche molto ben organizzati.
Queste organizzazioni infatti sono tutte dichiarate terroriste e messe fuorilegge. La Lashkar-e-Taiba (LeT) poi, cioè l’Esercito dei Giusti, ha stretti legami con Al Qaeda e cellule sparse in tutto il mondo ed è probabilmente responsabile degli attacchi di Mumbai del novembre 2008. La questione in Pakistan è quindi molto dibattuta: questi campi di fondamentalisti islamici impegnati in servizi umanitari, di cui c’è assoluto bisogno, possono continuare a lavorare e prestare soccorso, oppure per il semplice fatto di appartenere a delle organizzazioni terroristiche devono essere smantellati?
Lo abbiamo imparato con il caso Moro: con i terroristi non si tratta. E’ così da noi, era così nel 2002 con Colin Powell in Nepal. E’ così in tutto il mondo. Oppure si tratta solo quando fa comodo? Il caso del Pakistan è drammatico, ma non si rischia di sostenere indirettamente le organizzazioni, avvallandone la presenza? E cosa succederà quando l’emergenza sarà finita? Perché la gente sarà anche grata a chi l’ha aiutata, avrà familiarizzato con i terroristi, avrà stretto legami con loro. E’ un affare pericoloso. Accettare l’aiuto sì, o no?