Vittorio Bertola è partito per un viaggio di lavoro – piacere in Cina e sta raccontando il suo viaggio attraverso una serie di post sul suo blog.
Una lettura work in progress da non perdere di cui riportiamo degli estratti
Sì, in Cina Facebook è filtrato, e anche Twitter (sono ammessi solo omologhi cinesi autorizzati dal governo). Ho provato a collegarmi facendo ponte sul mio server, in modalità solo testo, ma Facebook non la supporta… Temo che per un po’ potrete seguirmi solo qui sul blog: le folle sono avvisate.
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In teoria ero preparato, essendo già stato due anni fa per quattro giorni a Tokyo d’agosto; dunque avevo già presente la mostruosità del clima asiatico di questo periodo, con un caldo nominalmente nemmeno esagerato ma accumulato da un’umidità mostruosa, che ti si appiccica addosso e ti stringe e ti soffoca lentamente. Farsi la doccia è inutile, perché ridiventi appiccicoso prima ancora di ridiventare asciutto; lavare i vestiti è impossibile, perché non asciugano; l’unico rimedio è quello adottato dai locali, cioè dotare qualsiasi luogo chiuso di un condizionatore – qui ce l’hanno anche le topaie nei bassifondi, lo si compra prima ancora del televisore e dell’automobile – e spararlo a sedici gradi.
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Qui lo stravolgimento continuo è palpabile: quel che vedi oggi, domani potrebbe non esistere più. Ovunque ci sono isolati transennati, abbattuti, pronti a diventare nuovi grattacieli. Ovunque ci sono moltitudini di cinesi che corrono, lietamente presi nell’ingranaggio del capitalismo comunista, protagonisti dell’epoca d’oro della Shanghai da bere.
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E’ che qui esistono chiaramente due economie: una per i ricchi e una per i poveri. Ma attenzione, nel resto del mondo (ad esempio in Africa, nel resto dell’Asia e, anche se meno, pure in Sud America) i ricchi sono per la maggior parte gli occidentali spediti in trasferta dalle multinazionali o venuti per turismo, completati da una parte minoritaria di ricchi del posto. Qui, invece, l’economia per ricchi è principalmente per locali; gli stranieri sono accolti con cortesia e interesse, ma non rappresentano (più) l’elemento vitale che fa girare l’economia del lusso e da essa, a cascata, l’economia locale.
uando si parla di Cina, l’occidentale pensa già di sapere tutto. Tipicamente non ci è mai stato né ci andrà mai, ma affronta la Cina con la spavalderia dell’ex colonialista – quello che interpreta il mondo sempre per similitudine con l’Europa – associata a un insieme di luoghi comuni derivanti un po’ dall’osservazione delle nostre Chinatown (che è come dire che l’Italia è tutta come Little Italy a New York, con i palazzi dipinti di bianco rosso e verde e con una economia interamente basata su ristoranti con gigantografie del Vesuvio sullo sfondo) e un po’ dai reportage dei nostri media, notoriamente affidabili e privi di sensazionalismi e secondi fini.