Ha atteso tanto prima di parlare al giudice e ieri ci è riuscita. “Valeva la pena di ingrandire in modo sproporzionato un conto in banca? Valeva la pena che a Casale morissero 1600 persone?”, si è chiesta davanti a magistrati, avvocati e pubblico. Al maxi-processo Eternit, Romana Blasotti Pavesi, 81 anni, presidente dell’Associazione familiari delle vittime dell’amianto, ha testimoniato dopo tante udienze passate fuori dall’aula, per via della norma che vieta ai testimoni di assistere al processo fino al momento del loro interrogatorio. E per lei, che per decenni si è battuta vedendo morire parenti e compaesani, era uno strazio stare fuori, nel corridoio, e non poter far niente in attesa del 12 luglio, giorno in cui era fissata la sua udienza.
Ha ricordato i cinque parenti morti: il marito Mario, dipendente Eternit, la sorella Libera, il nipote Giorgio Malavasi, la cugina Anna Borsi, morta in Slovenia, dove c’era un’altra fabbrica dell’Eternit, e infine la figlia Maria Rosa. Di questi, solo il marito lavorava nel cementificio, mentre gli altri sono venuti a contatto con la fibra killer in altri modi.
Abitavano molto vicino allo stabilimento di via Oggero lei e i suoi familiari stretti. In quello stabilimento il marito aveva cominciato a lavorare nel 1954 e ne era uscito nel 1976 per la pensione “. Poi, sei anni dopo, la malattia, il mesotelioma, l’incurabile cancro ai polmoni, e la morte dopo un anno di cure. Mario “era molto restio a parlare di lavoro”, ricorda “la Romana”, come la conoscono tutti. Però che qualcosa non andasse lei l’aveva capito dall’ambiente circostante: “Avevamo due figli e una figlia e quando li portavo in bicicletta a scuola mi sembrava molto strano che i muri dello stabilimento fossero coperti da manifesti di morte. Chiedevo a mio marito qualcosa, non sapeva, non li conosceva, diceva che forse era un tumore, forse altro”. Dopo la scomparsa del compagno sono sopraggiunte le altre, ma le lacrime, dice, le aveva già finite quando è deceduta la figlia Maria Rosa, appena cinquantenne: “Non ho pianto, è stata una botta in testa”. La figlia, dopo aver visto le sofferenze del padre, “pensava di non curarsi per non deperire, per non diventare una cavia. Tutte le malattie che il mesotelioma poteva portare le ha avute”, racconta. Una “piccola consolazione” è rimasta nei cinque mesi di agonia: “non ha perso i capelli che erano molto belli”.