Via Agenzia Ami
Qualcuno considera il giornalismo come il più bel mestiere del mondo. Ma da troppo tempo ormai le storie non combaciano più con la realtà. Ne è un esempio il mondo dei giornalisti precari in Campania, dove nelle riunioni del coordinamento siede l’intelaiatura di chi a Napoli produce informazione, senza essere riconosciuto o retribuito . «Napoli è la culla della cronaca, ma non viene pagata», spiegano i giornalisti precari che annunciano battaglia.
La riunione del collettivo giornalisti precari della Campania sembra una postilla del libro “l’abusivo” di Antonio Franchini. Aspirante pubblicista nella provincia di Napoli alla fine degli anni ’70, divenuto poi editor della Mondadori, Franchini raccontava l’odissea famigliare e sociale di uno che da grande avrebbe voluto fare il giornalista. La narrazione è alternata alla vicende del ragazzo Giancarlo Siani che, appena approdato dopo lungo e non terminato precariato ad una scrivania nella sede in via Chiatamone de “il Mattino”, trovava la morte pochi giorni dopo per mano di altrettanto giovani sicari del clan Gionta. Nelle riunioni del coordinamento siede l’intelaiatura di chi a Napoli produce informazione. Quei ragazzi che consentono agli editorialisti di firmare qualcosa a capo di un più corposo libretto di cronaca cittadina. Un lavoro che è soprattutto una passione. Una passione che per essere accreditata spesso va svenduta a buon a mercato. Chi ci guadagna è un mercato editoriale che ti impone doveri ma che ti fa sentire scevro da diritti.
Per di più in una città che non ha mai avuto un editore degno di questo nome. Che si parli di informazione stampata come radiotelevisiva, di saggistica o di narrativa, Napoli è una galleria di atipici e buffi editori ma nessun progetto serio. Come spiega Ciro Pellegrino che del coordinamento ne fa parte «Napoli è la culla della cronaca, ma questa non viene pagata». E il giornalista ha una serie di declinazioni, «come il giornalista di fatto; colui che vuole fare il giornalista ma non ha il tesserino. Propone i pezzi ma ha difficoltà anche a imparare perché si tratta di un mestiere. Un lavoro che richiede una gavetta e un apprendimento. Poi c’è chi fa scuole di giornalismo che hanno un costo annuo abbastanza consistente. Un investimento che fa l’aspirante giornalista o la sua famiglia su una professione. Una tipologia di precario che il lavoro lo vede da lontano, con uno stage bimestrale ma che poi non trovano il lavoro per la crisi della redazione. Lo stagista in una redazione è visto come la morte visto che alcuni progetti editoriali mantengono a fatica i propri redattori. Poi giornalisti espulsi dal ciclo produttivo che si trovano poi come free lance o come ufficio stampa presso dei politici. Con il doppio incarico di chi deve fare tutto e può fare tutto, magari vincolato da una dimissione in bianco, o con il compito di fare quelle che a Napoli chiamiamo “marchetto”, ovvero promuovere il lavoro del primo datore di lavoro occulto». Dinanzi un sindacato che sembra avere come unica missione della propria vita la difesa di tre giornalisti in Rai il coordinamento a Napoli è una risorsa creata da sé. Anche perché se il punto è l’autonomia del giornalismo nel paese Italia il coordinamento tiene a evidenziare una cosa: «L’autonomia si ferma quando prendi un tesserino e non hai possibilità di trovare lavoro». Da qui cominciano mille odissee, e la passione rischia di divenire incubo.