Francesco Russo su Repubblica.it
E’ una di quelle notizie a prima vista in bianco e nero, in cui dovrebbe essere facile distinguere buoni e cattivi. Dunque, Google – come annunciato la settimana scorsa – ha smesso di censurare i risultati del proprio sito in cinese Google.cn, redirigendo il dominio su Hong Kong, che fornisce risultati senza censura.
Formalmente il motore di ricerca non abbandona la Cina, lasciando al governo di Pechino il compito di oscurare il sito. Ma di fatto, aver rinunciato all’impegno all’autocensura che – come chiunque voglia operare su internet in Cina – anche big G aveva adottato quattro anni fa, equivale alla decisione di lasciare. “Speriamo”, afferma David Drummond, vicepresidente e responsabile dell’ufficio legale di Google – che il governo rispetti la nostra decisione, anche se siamo ben consapevoli che da un momento all’altro potrebbe bloccare l’accesso ai nostri servizi”. A questo proposito Google ha addirittura creato un cruscotto dal quale è possibile vedere giorno per giorno lo stato dei propri siti, quali siano in funzione e quali invece siano stati bloccati.
Per il momento restano operativi i centri di ricerca di Google in Cina (le centinaia di ingegneri, molti dei quali lavorano su Android, il sistema operativo dei telefonini, dipendono direttamente dalla sede centrale di Mountain View) e l’ufficio commerciale. Il dominio .com inoltre rimane raggiungibile, sia pure con le limitazioni vigenti per tutti i servizi stranieri.Di fronte a chi rinuncia al denaro – si dice tra i 300 e i 400 milioni di dollari nel 2009, comunque meno del 2% del fatturato – e a un mercato di 380 milioni di utenti in nome della libertà di opinione, non ci possono essere tentennamenti. Specie se dall’altra parte c’è il governo cinese, che incarcera i dissidenti e che su internet ha realizzato la Grande Muraglia di Firewall, una censura gelatinosa fatta di strumenti automatici, rallentamenti e occhiuti controllori manuali che rendono frustranti la navigazione sui siti occidentali e impossibile informarsi liberamente su temi fastidiosi per il regime come il Tibet o i fatti di piazza Tien An Men.
Tuttavia è necessario inquadrare con precisione i termini della vicenda per cercare di andare oltre l’indignazione. Certo, è possibile che nella scelta finale abbia contato il fatto che Sergey Brin, uno dei due fondatori di Google, sia figlio di esuli russi scappati dalla dittatura sovietica. Ma allora non si spiegherebbe perché solo tre anni fa l’amministratore delegato della società Eric Schmidt, a chi gli chiedeva perché Google tollerasse l’autocensura, abbia risposto: “Sarebbe arrogante per noi entrare in un paese e spiegare come bisogna comportarsi”. Di fatto, se si cerca di illuminare la vicenda più da vicino ci si accorge che non c’è solo bianco e nero, ma anche una vasta zona grigia di domande in attesa di risposta.