Scrive Giustino Parisse, giornalista de Il Centro, che nel sisma ha perso due figli e il padre
Il sei aprile, alle 4 di mattina, mentre io cercavo disperatamente e inutilmente di tirar fuori dalle macerie i miei due figli e mio padre, c’era chi, a poche centinaia di chilometri di distanza, dentro il suo letto, rigirandosi fra le lenzuola, rideva. Rideva della tragedia di una città, rideva di oltre trecento morti, rideva di gente impaurita che scappava dai luoghi della vita e che addosso aveva al massimo un pigiama e un paio di pantofole. All’Aquila, quelle risate per fortuna non le ha sentite nessuno. In quella notte, appena rischiarata dalla luna, tutti noi siamo sprofondati nel silenzio della morte.
Poi sono arrivate le grida, le lacrime, la disperazione che spezzava le corde vocali. Eppure qualcuno, nel tepore del suo appartamento rideva pensando all’affare terremoto «che non capita tutti i giorni». Una sola concessione: quel “poveracci” buttato lì nel corso di una conversazione telefonica che è contenuta negli atti dell’inchiesta aperta dalla Procura di Firenze sugli appalti della Protezione civile alla Maddalena. Sì, è vero, noi in quella notte eravamo poveri – e lo siamo rimasti visto ciò che non abbiamo più e che nessuno ci ridarà – ma non abbiamo perso la dignità. Quella, la dignità, l’hanno persa loro, che hanno il conto in banca ben fornito ma che sono poveri, anzi poveracci, dentro. Ieri ho parlato con molti onnesi, i miei compaesani che ogni giorno guardano il loro paese cancellato dalla furia della natura. Il commento più benevolo è stato «che schifo». Io mi sento ferito al solo pensiero che esista una tale umanità. Ho letto anche delle accuse mosse al capo della Protezione civile Guido Bertolaso. Io ho conosciuto Bertolaso, mi è stato vicino umanamente nei momenti più difficili. Mi rifiuto di pensare di aver conosciuto una persona “ doppia”. Lui, quella mattina, si è alzato dal suo letto per venire a darci una mano.