Una analisi di Aldo Grasso sulla situazione del mercato televisivo italiano
C’è molta agitazione nell’etere. Di solito, l’estate rappresenta un momento di calma per le tv: riciclano il magazzino, ripropongono per l’ennesima volta «La signora in giallo», si collegano con qualche località turistica disposta ad accollarsi le spese di realizzazione. Quest’anno invece si respira il nervosismo tipico delle grandi trasformazioni: la posta in gioco è molto alta perché il ruolo della tv, legandosi sempre più indissolubilmente agli altri media (Internet, telefonia fissa e mobile…), resta centrale nel panorama mediatico. È intervenuto persino il capo dello Stato per chiedere spiegazioni sullo scioglimento della convenzione tra Rai e Sky.
Com’è noto, Viale Mazzini non ha più rinnovato il contratto che le permetteva di fornire alla tv satellitare le sue reti generaliste, più altri canali «extra ». Per ora è ancora possibile vedere Raiuno, Raidue e Raitre ma da qualche giorno molti programmi sono criptati (la partita Inter-Lazio ma anche vecchi telefilm): un preciso segnale (anzi, una mancanza di segnale) di sgarbo, se non di provocazione.
L’atteggiamento della Rai è di non facile lettura, e comunque non in linea con la nozione di Servizio pubblico (SP) rappresentata ad esempio dalla Bbc, che fin dalle origini ha partorito l’idea della tv come bene comune di importanza nazionale, al pari della luce, del gas, dei trasporti. Il SP, in quanto retto da un canone, dovrebbe fare in modo che i suoi servizi siano totalmente pubblici (parliamo delle reti generaliste), e cioè visti dal più alto numero di persone, indipendentemente dalle piattaforme di trasmissione, considerate «tecnologicamente neutrali». Il fatto che la Rai sia entrata in conflitto con Sky, con il rischio di negarsi a quasi cinque milioni di famiglie, costituisce un unicum in Europa. In nessun altro Paese le politiche dei public service broadcasting hanno condotto alla ritirata da una piattaforma distributiva. Talmente un unicum che il governo italiano ha già pronta una legge che servirà a giustificare il divorzio.
Questo contrasto prende le mosse dalla più grande rivoluzione tecnologica della tv: il passaggio «forzato» dall’analogico al digitale. L’Unione europea ha giustamente imposto questo nuovo sistema di trasmissione per liberare frequenze, per ampliare lo spazio di partecipazione. Ma, nell’enfasi che ha accompagnato il processo di digitalizzazione della tv in Italia, si è spesso sottolineata l’inevitabilità, quasi la naturalità delle scelte intraprese, che sono, al contrario, solo decisioni politiche. Digitale significa pure satellite o cavo o IPTV. Rai e Mediaset hanno scelto il digitale terrestre (DTT) anche perché erano proprietarie della rete distributiva (optare per il satellite, che è una tecnologia più avanzata, significava dismettere i propri trasmettitori e «giocare » in campo avverso).
Il DTT rappresenterà quindi in Italia lo snodo di accesso universale, quello che potremmo definire «il minimo comune denominatore » per guardare la tv. Rispetto alla vecchia tv analogica, l’offerta è arricchita da qualche nuovo operatore, da alcuni canali gratuiti (come Rai4 e, fra poco, Rai5) e dalla possibilità di accedere a contenuti pay. Sviluppare un’offerta a pagamento sul DTT è infatti un’operazione particolarmente vantaggiosa: come dimostra l’aggressiva politica di diffusione delle «carte prepagate » che Mediaset sta realizzando con originalità, forte anche di un’offerta qualitativamente alta e ben strutturata che invece la Rai non possiede. Per esempio, di questi tempi, le partite di calcio con una card prepagata sono più appetibili di un abbonamento annuale.
L’impressione è che la Rai non attui una politica a favore della propria audience (a coltivare la qualità della propria audience, come imporrebbe un altro dogma del SP), quanto piuttosto a favore di quello che un tempo era il suo unico competitor, Mediaset. Ci sono altri indizi che rafforzano questo dubbio: il potenziamento del DTT con soldi pubblici ha favorito non solo la Rai, o la nascita del consorzio TivùSat, la nuova piattaforma che diffonderà via satellite, ma con un nuovo decoder, gli stessi programmi trasmessi in digitale terrestre da Rai, Mediaset e La7, o il fatto che sia il SP a dover in qualche modo risarcire Europa 7 attraverso una cessione di sue frequenze (l’emittente di Francesco Di Stefano che nel 1999 aveva vinto la gara per una concessione nazionale, ma non aveva trovato posto, già occupato da Retequattro).
Insomma, in un modo o nell’altro, continua ad aleggiare il fantasma del conflitto di interessi. Inutile nascondersi che la vera battaglia sul futuro della tv in Italia è tra Berlusconi e Murdoch. La Rai, invece di restare neutrale, sembra aver fatto la sua scelta di campo.
Io so solo che:
Buon giorno …. voglio segnalare che in Valle Camonica non si riceve nessun canale Digitale “Rai o Mediaset” che in altre zone della Bergamasca o Bresciano si prendo senza problemi. Ho sentito parlare di una speciale piattaforma satellitare che ci obbligherebbe ad avere una parabola con un decoder speciale, chiaramente il tutto a carico nostro.
Visto che io pago il canone ( anche se mi dicono che sono un Pirla ), credo che sia obbligo della RAI portare il segnale in TUTTE le case senza costringere gli utenti ad aggiungere altre spese e scocciature. Grazie …
Mancano 4 giorni allo switch off e in valcamonica non si vede ancora niente.
A poco più di una settimana dallo switch-off del segnale analogico in lombardia, qui in Vallecamonica non si ricevono ancora i canali rai e mediaset, si vedono solo La7, MTV e pochi altri…spero proprio che non ci costringeranno a passare al satellitare