La vita è curiosa. Nel 2006 The Economist profetizzava, con piglio provocatorio, la scomparsa dalle edicole dell’ultimo quotidiano nel 2043. Ora la recessione accelera i processi. Molti quotidiani e settimanali, travolti dal calo della pubblicità, vanno male. Ma The Economist Group no. Anzi, il 31 marzo 2009 ha chiuso il suo bilancio record. Quando diede l’allarme al resto dell’informazione, la Cassandra londinese dichiarava ricavi per 218 milioni di sterline con un utile netto di 22. Adesso, guadagna 38 milioni su 313 fatturati. L’alfiere della globalizzazione – lettura obbligata dell’iperclasse che trasvola sulle patrie – miete i suoi successi. Vende quasi 1,4 milioni di copie, il doppio di 10 anni fa, il quintuplo rispetto agli anni Ottanta. Dell’autorevolezza della testata, fondata nel 1843 da James Wilson, un sostenitore del free trade, si sa tutto. Rupert Pennant-Rea, già direttore negli anni Ottanta, è stato vicegovernatore della Banca d’Inghilterra e ora presiede l’editrice. Negli anni Trenta, Luigi Einaudi, esule volontario dal Corriere espugnato dal fascismo, era il corrispondente dall’Italia. Si sa meno, invece, dell’azienda.
The Economist Group riunisce, attorno alla storica ammiraglia, mensili specializzati, siti internet, l’Economist Intelligence Unit e il notiziario del Congresso Usa, Roll Call, cui si è aggiunto Capitol Advantage, comprato l’anno scorso per 21 milioni di sterline forniti senza battere ciglio dalle banche benché – circostanza insolita a occhi italiani – il gruppo abbia un patrimonio netto negativo e l’acquisita abbia solo avviamenti. La verità è che, dopo oltre un secolo di bilanci contenuti, la società ha cominciato a fare tanti soldi. E a distribuire agli azionisti perfino un po’ di più di quanto guadagni. Negli ultimi 4 esercizi, ha pagato dividendi per 152 milioni avendo realizzato 126 milioni di profitti. Una scelta non rara nel Regno Unito: il London Stock Exchange si regola allo stesso modo. E resa possibile dal flusso di cassa abbondante. Ai soci interessa meno, evidentemente, il valore della società. In base al prezzo indicativo dell’azione a bilancio, il gruppo vale 500 milioni di sterline, ma la società non conferma perché non tutte le azioni sono uguali e The Economist Group non è quotato. Anzi, una struttura proprietaria curiosa. Il capitale è infatti formato da 4 categorie di azioni: 100 azioni senza diritti patrimoniali ai trustees, 22,68 milioni di ordinarie pressoché senza diritti di voto (gli Agnelli ne hanno appena comprate 50 mila, parecchie sono destinate ai dipendenti), 1,26 milioni di azioni speciali A in mano a una novantina di soci tra i quali Lynn Forester de Rothschild con il 19%, e poi i Cadbury e gli Schroeders, e altrettante di classe B di proprietà del Financial Times, gruppo Pearson, che le ha acquistate nel 1928. I 4 trustees controllano i passaggi azionari e le nomine al vertice del giornale e della società.
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