erché, nonostante l’ICT sia uno dei pochissimi settori che possono ancora reggere l’economia di un paese sviluppato, praticamente nessuna azienda italiana dell’ICT ha successo su scala globale, e quelle che reggono lo fanno in buona parte solo su scala nazionale e solo grazie a commesse ricevute per amicizia (quando non per stecche) da pubbliche amministrazioni o manager amici?
La mentalità dell’imprenditore italiano medio è ristretta: se gli date in mano un budget di 100 con cui fare una nuova impresa, lui allocherà 80 a se stesso, al proprio SUV e al telefonino fico, e poi coi 20 rimasti cercherà di assumere (anzi, di non assumere) collaboratori vari, stagisti, consulenti e personale vario, selezionato esclusivamente perché costi poco. Conosco personalmente più d’un piccolo-medio imprenditore che parla dei propri dipendenti con il nomignolo di “carne da macello” o “scimmie ammaestrate”, magari adottando esplicitamente la tattica di prendere una persona in stage promettendo una assunzione, tenerla sottopagata o gratis finché non si stufa, e poi prenderne un’altra.
Purtroppo, nell’ICT questo non funziona: il lavoro dei tecnici è un lavoro ad alta densità di conoscenza, che non può essere programmato come quello di un operaio. Specialmente se ciò che si crea è innovativo, non si può sapere in anticipo quando sarà finito, e nemmeno se lo si riuscirà a fare e come; in questa situazione, l’investire su una persona, il qualificarla, il tenersela – evitando così i costi, che quasi nessun imprenditore considera, di inserire nuove persone e di doverle formare da capo – è vitale per il successo dell’azienda, a tutti i livelli; le persone non sono intercambiabili.
Sperare di competere globalmente nell’ICT con aziende piene di stagisti e giovani-limone, da spremere fin che ce n’é, è pura utopia: è chiaro che l’Italia, con questo approccio imprenditoriale, non andrà mai da nessuna parte. Alla fine, però, nel malato sistema economico nostrano le cose comunque vanno avanti: tanto le commesse arrivano raramente per via della qualità dei prodotti e dei servizi dell’azienda, e arrivano più spesso per capacità commerciali o direttamente per amicizie. Tanto, dall’altra parte c’è spesso un’altra azienda piena di giovani limoni, che per carenza di competenza non è in grado di capire la qualità del prodotto informatico che sta comprando.
L’ICT potrebbe essere il motore del cambiamento in numerose imprese, specialmente quelle piccole, dove la “rivoluzione” digitale non ha mai preso piede, salvo chiaramente le eccezioni. Molto spesso le tecnologie ICT, in particolare quelle informatiche, sono marginalizzate: nelle PMI si utilizza certamente la posta elettronica, si naviga nella rete, ma non sempre sono in esercizio delle piattaforme documentali per dematerializzare i documenti cartacei, e non sempre si fa un uso diffuso dei sistemi di conservazione dei dati negli archivi elettronici.
Il settore industriale ICT ha, e questo deve essere detto, dei propri limiti, che possono riflettersi nel modesto impiego delle soluzioni presso le piccole imprese: in Italia si consumano le tecnologie, cioè si importano soluzioni software ed apparati hardware, e si implementano in progetti più o meno immediati (dei cui risultati, effettivi, si dovrebbe indagare a fondo, in quanto l’innovazione nelle organizzazioni NON é mai solo tecnologico, ma deve essere prima di tutto culturale ed organizzativa).
Questa situazione di “arretratezza” dell’industria ICT nazionale, (chiaramente generalizzo, perchè il settore é abbastanza frammentato, é giusto evidenziare che esistono validi esempi di realtà ICT italiane in grado di affermarsi a livello competitivo anche in ambiziosi programmi di internazionalizzazione), appunto limitata dalla sua incapacità di investire in modo cospicuo e sistematico nella R&S, é tra le ragioni principali della debolezza a livello internazionale: per sintetizzare, sono poche le imprese italiane ICT in grado di “guardare” cosa accade a livello mondiale, e pochissime quelle che si “lanciano” in progetti di ricerca finalizzati a sviluppare quei valori intangibili sempre più determinanti per competere: know-how, ricerca, prototipazione, brand.