Una intervista a Lorenzo Cairoli
Da quando c’è Internet, il mondo si racconta con due lire. Basta avere in redazione un giornalista che legga l’arabo e altri due che parlino un inglese decente. A quel punto, senza più avere corrispondenti sul libro paga, senza più correre il rischio di vederli sequestrati da qualche talebano, mullah, fondamentalista yemenita, o bandito nigeriano, senza averli più in giro per il mondo a fare gli embedded degli americani ma a soli novantaseicentimetri dalla macchina del Nescafè, potrai permetterti ugualmente un’informazione capillare in ogni angolo del pianeta, sia che scoppi una rivolta a Tonga o una controversia ambientalista sul fiume Uruguay.
Basterà piazzarli un pomeriggio intero davanti a un pc, con cinque o sei dizionari della Garzanti, e magari una seconda edizione del Kovalev, a saccheggiare i pezzi dei loro colleghi stranieri. Li tradurranno, li riscriveranno ( se ci sarà tempo e voglia, altrimenti si limiteranno alla solo traduzione) li firmeranno e infine li consegneranno al proprio caporedattore. Molti pezzi di Diario sono nati così, ma anche di Panorama, de La Stampa, e di molte altre autorevoli testate, perché come affermava Pannunzio ‘La gente ha sete di autenticità…crede più ai testimoni che ai maestri” e così le testate distribuiscono testimoni e autenticità. Di altri.